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salotto culturale del jazz

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I canti di lavoro, lo spiritual  

e la nascita del blues primitivo

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Secondo molti studiosi il termine blues origina dall’espressione “I have the blue devils”, (“ho i diavoli blu”) ed indica un profondo stato di malinconia e disperazione che il popolo nero americano ha sempre cercato di alleviare cantando la propria storia alla propria gente. Il blues è la musica per eccellenza che ha accompagnato per secoli la vita degli schiavi americani, si è colorato e conformato di tristezza ma anche di forza di volontà, desiderio e invocazione alla libertà. Porta con sé il cammino di un popolo violentato nella propria spiritualità prima ancora che nell’identità culturale, un popolo che ha sempre cercato una condizione di vita che lo avvicinasse allo stile dell’uomo bianco, rivolgendosi al suo Dio ma conservando, al contempo, memoria della sua terra d’origine, delle tradizioni e degli idoli dei suoi padri.. 

 

Il blues è la matrice culturale della forma profana afroamericana, prima rurale e poi urbana. Mentre la prima è più antica e risale all’epoca della schiavitù, la seconda riflette il movimento storico e sociale dei neri che, dalla guerra civile in poi, emigrarono dalle piantagioni del sud verso le città del nord, per cercare un nuovo mondo e per sfuggire ai movimenti di segregazione razziale. 

All’inizio della deportazione, gli schiavi neri non cantavano il blues, per questo può ritenersi una musica indigena americana che non sarebbe esistita se gli schiavi africani non fossero diventati schiavi americani. La musica antecedente il blues era quella dei canti di lavoro (work song), che avevano soprattutto la funzione atavica di garantire una comunicazione a distanza tra gli schiavi, proprio come avveniva nel continente nero. Gli schiavi provenivano da zone diverse dell’Africa e parlavano lingue differenti: in dialetto bantù o sudanese, con un sostrato in camitico che includeva il copto, il berbero e il cuscitico. Con gli anni il linguaggio subì una fusione delle diverse lingue africane con quelle francesi, spagnole, e inglesi. I canti in lingua africana diventarono via via sempre più rari per ovvi motivi interpretativi, non tanto dovuti a problemi linguistici, quanto al significante soggettivo che si attribuiva ai significati oggettivi, concettuali e fenomenici.

 

Nell’impellente necessità di un contatto di rete, gli schiavi delle piantagioni dovettero inventarsi un linguaggio comune, insolito, il più possibile incomprensibile ai padroni bianchi e ai sorveglianti. Si sviluppò un codice metaforico, basato sui cosiddetti double talks (linguaggio cifrato) in cui ciò che veniva cantato non sempre corrispondeva a ciò che veniva pensato. 

La poetica del double talk racchiude essenzialmente due principi: 

  • da una parte la chiusura totale verso l’esterno attraverso il linguaggio ambivalente della metafora, che permetteva di nascondere sentimenti ed emozioni impedendo all’intruso bianco di sapere e capire; 

  • dall’altro la necessità di esorcizzare la propria sofferenza e instabilità psicologica nel tentativo di salvaguardare un già compromesso spirito di sopravvivenza. 

 

Questi tratti allusivi e metaforici, che costituivano un vero e proprio stile nella comunicazione, saranno presi in prestito dal blues per raccontare in versi la particolare storia e i momenti essenziali del vivere comunitario. 

Da un’attenta analisi di alcuni testi dei canti, LeRoi Jones, letterato esperto di musica nera, mette in evidenza che le frasi che inducono all’intemperanza sono in lingua africana, cioè del tutto incomprensibili ai bianchi, mentre le frasi dai modi gentili e garbati sono nella lingua dei padroni. 

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Oundè, oundè,macaya

Mo pas barrasse, macaya!

Oundè, oundè,macaya

Mo bois bon vin macaya!

Oundè, oundè,macaya

Mo mange bob poulet, macaya!

Oundè, oundè,macaya

Mo pas barrasse, macaya!

Macaya!

Dai, dai, mangia a crepapelle!

Che me ne importa –

 mangia come un porco!

Dai, dai, mangia da scoppiare!

Io bevo del buon vino! Mangia come un lupo!

Dai, dai, sempre a bocca piena!

Io mangio un buon pollo -

Tanto da sballare

Dai, dai!

 

 

Con il passare del tempo neppure più i neri capirono l’africano e questi messaggi occulti rimasero ancorati nel flusso non verbale e irrazionale dei poliritmi e delle forme contrappuntistiche delle nuove musiche. 

L’apice dell’allusività e della metafora è rappresentato proprio dalla stessa parola “blues” che non è solo il nome di un genere musicale, ma si arricchisce di vita propria, sentimenti e storie da raccontare nei testi delle canzoni. “Strange fruit” è l’esempio di una mirabile canzone portata al successo dall'artista statunitense Billie Holiday, che la eseguì per la prima volta nel nightclub Café Society di New York nel 1939. 

 

 

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« Southern trees bear a strange fruit,

blood on the leaves and blood at the root,

black body swinging in the Southern breeze,

strange fruit hanging from the poplar trees. »

 

 Gli alberi del sud danno uno strano frutto,

sangue sulle foglie e sangue sulle radici,

un corpo nero si agita nella brezza del sud,

strano frutto che penzola dagli alberi di pioppo. 

 

 

Gli schiavi, per sopportare meglio la fatica nelle piantagioni cantavano, nell’intento di coordinare le proprie azioni con quelle dei compagni, utilizzavano l’elementare scansione ritmica del lavoro prodotta dai corpi in movimento. I grugniti e i lamenti costituivano una base sonora collettiva su cui costruire frasi vocali ripetute secondo la tipica matrice “antifonale e responsoriale” (call end response). Su questa struttura si collocherà tutta la metrica e il ritmo che darà vita alle prime forme degli spiritual e dei cori gospel. È interessante ipotizzare, come fa LeRoy Jones, come sarebbe stata la musica afroamericana, oggi, se i neri avessero svolto altre attività, come servire ai tavoli o fare i magazzinieri. Nelle piantagioni, i lavoratori non potevano raccogliere cotone o coltivare il mais suonando al contempo uno strumento, ed è proprio per questo che i canti non erano così rigorosamente disciplinati ed esatti come lo erano quelli europei. Inoltre, col passare del tempo gli strumenti musicali come il bangjo e lo xilofono, o ancora le percussioni e i fiati importati dall’africa, furono proibiti perché considerati un congegno del diavolo che facilitava la trasmissione dei messaggi segreti di ribellione secondo quello che venne definito "Codice Nero". 

 Pertanto, raramente i neri disponevano di strumenti musicali, tranne quei pochi che si erano costruiti alla meglio imitando i modelli originari. La chitarra e altri strumenti a corda erano di solito ricavati da una comune scatola di cartone, oppure il contrabbasso era costituito da una corda tesa su un più che tradizionale manico di scopa piantato in un bidone, ed anche l’asse per lavare i panni, il celebre washboard, era utile allo scopo di segnare un ritmo. 

A Cuba, agli schiavi impegnati nella coltivazione della canna da zucchero e del rum si offriva l’opportunità di suonare l’arpa o la vihuela  nei pochi momenti di pausa. Rimaneva comunque la voce lo strumento principale e insopprimibile che scandiva i tempi del lavoro, raccontava storie nei momenti di riposo serale e tramandava le tradizioni africane. 

Quando i primi schiavi furono deportati in America non c’era alcun proposito di convertirli, come invece fu fatto con gli indiani. Per quanto gli europei disprezzassero le capacità razionali degli indiani, mantenevano pregiudizi molto più forti nei confronti dei neri che erano considerati al pari delle bestie da soma o dei selvaggi corrotti dall’eresia musulmana. Le loro fattezze fisiche e il loro colore erano assai più lontani dall’ideale di bellezza spagnolo, più di quanto non lo fossero le sembianze degli indio, in più si aggiungeva l’incubo della rivolta che rendeva gli spagnoli più repressivi. 

Vennero scoraggiati i matrimoni tra neri e bianchi, nonostante le Corona non li proibisse espressamente: se il partner nero avesse corrotto quello bianco, la prole sarebbe stata macchiata dall’infamia (L.N. McAlister, 1985), anche se di fatto nulla scoraggiò gli spagnoli dal prendere le donne nere come concubine, ritenute sensuali e passionali. Mentre, nell’ipotesi che i depravati neri potessero corrompere gli innocenti indiani e diffondere il germe della sovversione politica e religiosa, la Corona si oppose espressamente alle unioni, legittime e illegittime, fra neri e indiani. Proibì ai neri di vivere nelle comunità indigene, mentre gli indiani non riservavano alcun pregiudizio razziale e le loro donne identificavano gli africani al pari dei conquistatori europei.

 

Prima della conversione al cristianesimo, la religione africana venne proibita per molto tempo e l’evocazione degli spiriti e i riti vodoun (voodoo) erano considerati un linguaggio del diavolo e chi lo professava doveva essere punito con la morte o la fustigazione. I praticanti del ring shout (riti in cui si invocavano gli spiriti in cerchio) facevano ogni sforzo per non incrociare i piedi perché, se così avessero fatto, avrebbero “danzato” e reso omaggio al demonio. La danza e la musica profana erano cose diaboliche 

“E’ un peccato che Satana debba avere tutte le canzoni migliori”, disse un giorno John Wesley, il fondatore di una chiesa Modista. 

Talvolta ballavano in silenzio, oppure si ricorreva a strani espedienti nella speranza di attutire il rumore dei canti e delle danze. All’entrata della baracca potevano collocare, ad esempio, una tinozza per il bucato capovolta, oppure un vaso di ferro che, sollevato da terra da un lato, avrebbe dovuto “inghiottire” i rumori. Era già quello un sintomo del complesso di colpa – afferma Arrigo Polillo - che avrebbe colpito per molti secoli il nero americano che fino ad epoca recente si vergognava della propria musica, in particolare del blues o del jazz.

Gli schiavi potevano vivere la propria spiritualità solo praticando i loro riti in luoghi nascosti, nei boschi e nelle foreste. Questi luoghi non solo garantivano un riparo dalla comunità bianca, ma permettevano il ritorno alla natura e al carattere pluralistico e animistico della loro religione. I primi canti religiosi potevano considerarsi una rielaborazione, in chiave cristiana, della musica ritualistica africana. Quei canti, indicati come lining himns, si basavano su una struttura antifonale e responsoriale di “chiamata e risposta”. Un leader pronunciava ad alta voce una frase, generalmente tratta dalle Sacre Scritture, mentre il coro la ripeteva poco dopo, riproducendo la stessa intonazione e le medesime inflessioni della voce guida. Il battito delle mani, dei piedi, l’uso di tamburelli e delle percussioni forniva all’insieme musicale una pulsione variegata e intensa, tipica della poliritmia africana. 

 L’Africa e le sue secolari tradizioni non potevano essere rimosse. I neri dovettero adeguare la propria religione tradizionale a quella occidentale cristiana e, a partire dall'epoca coloniale, nacquero numerosi culti il cui minimo comune denominatore è rappresentato dal sincretismo, in cui ancora oggi, in alcune zone, convivono credenze, pratiche, rituali cristiani e tradizionali. Vi è la conservazione di molti culti feticisti di matrice africana (riti di passaggio e iniziazione) officiati da preti di sembianze occidentali ma di funzione e tradizione sostanzialmente africane (Herskovits). Specialmente a Cuba, come in Messico e in Brasile, si ebbe un processo di sostituzione e sovrapposizione delle divinità del pantheon africano con i Santi del calendario cristiano. Il “candomble” a Bahia, la “santerìa” a Cuba, lo “xango” a Recife, etc. 

 

I primi a farsi cristiani furono i cosiddetti “neri da cortile” (servitori) che, essendo a stretto contatto con i padroni, passavano la vita ad imitare la loro cultura nella speranza di farsi accettare ed emanciparsi. Ma i padroni temevano che, una volta convertiti i neri, non essendo più pagani né selvaggi, potevano venir meno i motivi per schiavizzarli.

Ma contro la volontà dei proprietari di schiavi, le prime forme di apertura al cristianesimo dei neri arrivarono dai Quaccheri della Pennsylvania, dai Battisti e dai Metodisti all’inizio del XIX secolo, i quali pensarono, invece, che la religione potesse costituire uno strumento di controllo sociale perché per gli schiavi era l’unica speranza di salvezza e rendeva loro la vita più sopportabile. Rappresentava un’alternativa al desiderio di libertà, il nero andava in chiesa per prepararsi alla libertà della terra promessa. “Passare il fiume Giordano” non significava solo morire ma liberarsi dalla costrizione terrena e dall’inumano gioco della schiavitù.

 

“Cancellò dalla mente dello schiavo il ricordo dell’africa e quello della libertà, e gli suggerì, per sfuggire alla sofferenza della schiavitù, di attendere la morte, che lo avrebbe trasportato in pace e maestosamente nella terra promessa” (LeRoi Jones, 1963).

Queste congregazioni permisero agli schiavi di partecipare alle funzioni religiose, e non appena la chiesa nera si consolidò sull’immagine di quella bianca, si stabilì una vera e propria gerarchia interna con la nomina di ministri e diaconi neri. Da un punto di vista dell’emancipazione sociale, lo schiavo cristiano diventava più americano rispetto a colui che cercava di conservare le tradizioni africane, questo fu un importante fenomeno che contribuì ad allontanare gli africani dalle loro origini.

Le prime chiese divennero gli unici punti di riferimento in cui gli schiavi si sentivano relativamente liberi dal dominio dell’uomo bianco. Dopo il duro lavoro nei campi, non c’era altro luogo per coltivare qualcosa che somigliasse minimamente alle relazioni sociali. La musica, in questo contesto, si rivelava uno strumento indispensabile e, rispetto ai work song dei campi, cominciava a diventare più melodica e musicale. 

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Lo spiritual fu la prima forma musicale indigena che si cantò nelle prime chiese nere. Non era una forma di rassegnazione o di autocommiserazione, come è stato spesso inteso, ma è piuttosto un canto in cui si esalta la liberazione del popolo nero. Nonostante i neri avessero la consapevolezza di non poter raggiungere la libertà, non cessarono mai di proclamare il diritto a conseguirla. Dio avrebbe accolto lui e i suoi fratelli riparando ogni torto subito in vita. 

Da un punto di vista musicale lo spiritual si conformò sullo schema degli inni inglesi ai quali si aggiunsero i ritmi e i colori africani. L’incontro tra due musiche differenti, l’inno bianco cristiano e lo spiritual nero, produsse ulteriori elementi che sarebbero stati poi usati dalla musica laica e sarebbero rimasti come modello ai riff e ai break del jazz di New Orleans. 

Verso la metà del XVIII secolo, quando il sincretismo culturale afro - cristiano si affermò un po’ ovunque, gli spiritual diventarono più educati e meno drammatici,  falsandone così lo spirito per venire incontro ai criteri estetici di un pubblico bianco. Si operò una forma di adattamento dei testi dei canti, o meglio, una sorta di reinterpretazione, a volte si cambiavano le parole, altre volte bastava alterare i versi per cristianizzare il senso, ma per fare questo, lo schiavo doveva conoscere sufficientemente la lingua straniera e i significanti di senso. 

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