

SARA’ SICURO VENIRE A SCUOLA DI MUSICA? QUALI SARANNO LE MISURE DI PREVENZIONE ANTI COVID PRESE DA OFFICINE MUSICALI PER FARE LEZIONI DI MUSICA IN SICUREZZA?
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La ragione per cui abbiamo deciso di chiudere la scuola prima del lockdown è proprio perché non abbiamo voluto mettere a rischio i nostri allievi. Anche se in Italia i numeri relativi all’andamento del Covid-19 sollevano una certa preoccupazione, gli esperti sostengono che rispetto alla scorsa primavera, la situazione è ben diversa perchè il paese ha imparato ad affrontare l’emergenza con misure preventive e cautelative. All’interno della scuola delle Officine viene garantita una regolare sanificazione delle aule e degli strumenti, la bonifica degli impianti di areazione e un completo ricambio d’aria all’interno dell’aula. Le regole che siamo tenuti a rispettare sono poche e semplici: disinfettarsi le mani con il gel appena si entra, usare la mascherina negli spazi comuni mantenere la distanza di un metro, viene chiesto un monitoraggio personale della temperatura: chi ha una temperatura superiore a 37 gradi non potrà venire a scuola. Le lezioni verranno recuperate in ogni caso.
L’ampiezza delle aule garantisce una distanza dall’insegnante superiore al metro e mezzo. Per Laboratori e altre attività che prevedono la presenza di più persone vige lo stesso criterio: protezione, distanza e limite massimo di persone consentite nell’aula. Per quanto riguarda le attività corali, vista l’impossibilità di portare la mascherina, abbiamo deciso di garantire una protezione con pannelli di plexiglas.
Speravamo che tutto fosse finito con l’estate, ma evidentemente le discoteche, i locali pieni e le spiagge gremite non hanno permesso la regressione del virus. Noi siamo ancora qui a cercare di fare quello che il comune buonsenso avrebbe dovuto suggerire… e non è poi così duro. Studiare uno strumento non è come andare in discoteca.
Facciamo tutto il possibile per non dover tornare a chiudere le scuole… BASTA SOLO UN POCO DI ATTENZIONE.

salotto culturale del jazz
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La nascita del Jazz
Le migrazioni di massa verso il nord e il generale senso di libertà dei primi decenni dello scorso secolo, rendono impossibile individuare un tempo e un luogo precisi della nascita del jazz. Tuttavia molti studi confermano che New Orleans sia stato il punto di partenza a cui far risalire i fenomeni sociali e culturali di questa musica. L’abbandono della scansione ritmica in 2/2 della marcia e l’adozione del 4/4 che corrisponde alla nascita del jazz, simbolicamente segnerà anche una svolta storica e sociale: il termine di un’epoca di conquiste e di spostamenti e la nascita di una nuova dimensione più urbana e sociale.
Il jazz, anche se origina dal blues, non può considerarsi una sua imitazione ma una musica autentica che riflette da vicino la realtà americana, tanto da poter sollecitare i bianchi di quel periodo a suonarla e ascoltarla. È facile dire che il jazz non sarebbe potuto esistere senza il blues, ma è inesatto considerare il jazz come un successore del blues: il jazz è una musica a sé, la musica nera più cosmopolita che si sia potuta sviluppare dal blues e che percorse poi una strada indipendente e autonoma. Così come il blues, anche il jazz si diffuse con stili particolari nella diversa geografia del paese. Blues e Jazz camminarono in parallelo pur avendo due connotazioni significative e culturali diverse.
Prima dell’era del Jazz (1915-1920) i neri del Nord cercarono in tutti i modi di allontanare i propri figli dall’ascolto del blues, di questa musica ritenuta gretta e incolta, lo sguardo era invece rivolto alla musica più “evoluta” prodotta dai bianchi. Ma con l’arrivo delle orde nere del Sud, nel 1914, non fu più possibile sopprimere quei riferimenti che contagiavano la vita di quei giovani ignari.
Mentre i cantanti di blues classico cominciavano ad incidere nelle sale di registrazione e suonavano negli spettacoli teatrali o nelle tournèe, cominciava ad avanzare una nuova musica, il country blues, che apparteneva soprattutto ai nuovi emigranti del Sud, emarginati nel ghetto di una città fatta di baracche e case popolari, spacci di alcoolici e duro lavoro. Questa musica si ascoltava nei luoghi notturni dei bar e delle feste private, una musica che prendeva nutrimento dalla miseria e dalla sofferenza e viveva dentro i confini di una corrente musicale sommessa, notturna, ripudiata perché ancora riesumava tutto quanto di spaventoso il Sud suggeriva.
Destinato a vivere come musica underground, il blues fu a lungo strettamente legato alla dimensione dell’emarginazione, ma probabilmente, fu proprio questa indole all’isolamento che riuscì a garantire una incorruttibilità da parte del bianco, preservando così un carattere esclusivo. Non esisteva una strada maestra per arrivare al blues, per crearlo, comporlo e tantomeno per comprenderlo.
Se pensiamo all’idea del cantante blues bianco emerge come una contraddizione ancora più spigolosa e meno accettabile del cantante blues nero-borghese. Lo spirito borghese, non poteva mettere radici nell’animo della maggior parte dei neri semplicemente per il fatto che essi ne coglievano l’assurdità. Era come se gli elementi contenuti nel blues fossero oscuri e accessibili solo dal bagaglio esperienziale dei neri.
“C’era sempre un confine musicale o culturale che il nero non poteva valicare. Il nero non poteva diventare bianco, e questa era la sua forza. […] Si dovette servire di altre risorse, africane, sottoculturali o esoteriche che fossero. E fu proprio questo limite, da questa terra di nessuno, che riuscì a trarre logica e bellezza per la sua musica. (Amiri Baraka, 1963)
Intorno agli anni Venti nacque il fenomeno del “rinascimento dei neri” destinato a forgiare un “nuovo nero”. I membri più colti della borghesia di colore si accorsero che non era sufficiente essere “neri più bianchi” per rivendicare la propria dignità umana e la giusta integrazione sociale. Molti scrittori si batterono contro il disprezzo dei “neri contro altri neri”, presero consapevolezza che non era più questo il modo di riscattare la loro vita. Questa consapevolezza si scosse soprattutto con l’internazionalismo iniziato dopo la Prima guerra mondiale che costituì un’importante input al “risveglio” dei neri. Il mondo era più esteso e oltrepassava gli orizzonti dell’America, anche in Europa c’era una società bianca e in questo parallelismo emerse che le diseguaglianze tra neri e bianchi erano un fenomeno tipicamente americano. I neri in Europa erano stimati e considerati perfino degli eroi. Nacquero in questo periodo i primi movimenti contro le restrizioni razziali e si assistette all’insorgere di gruppi sostenitori della causa del “ritorno in Africa da parte di tutti i neri del mondo”.
Oltre alla guerra, c’era in atto anche un grande cambiamento sociale, avvenuto grazie alle emigrazioni di massa dal sud e allo sviluppo fiorente dell’industria che offriva nuovi posti di lavoro. Chicago (e le vicine zone del Midwest) era diventato luogo di frontiera in cui bianchi e neri, artisti del country blues e del blues classico, le prime forme di regtime, dixieland e jazz, si incontravano creando una miscela culturale che cavalcava la corsa dell’America del Ventesimo secolo.
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Intorno alla fine degli anni venti il periodo più fertile del jazz di Chicago seguì un declino e la capitale culturale della musica si spostò a New York. Le cose cominciarono a cambiare rispetto al secolo precedente quando neri e creoli cercavano di imitare il bianco. Esistevano ora molti bianchi che suonavano la musica nera perché la ritenevano coinvolgente emotivamente ed intellettualmente. Si venne a creare un sostrato culturale comune davvero fervido di scambi e nuove conformazioni musicali anche se gli schieramenti tra musicisti bianchi e musicisti neri continuava a persistere, anzi col passare degli anni si accentuò e insorsero rivalità non più tra bande, ma tra singoli individui, visto che è proprio in questi anni che entra in scena la figura del solista che lascia alle spalle il primo jazz di stampo collettivo.
Il jazz, poteva considerarsi il primo genere musicale che, al di là di qualsiasi background culturale, rifletteva, in quegli anni, tutte le componenti di uno spettro musicale che andava dal nero al bianco. Mentre il blues poteva essere incomprensibile al nero-borghese e ancor più all’uomo europeo, il jazz diveniva un mediatore che si collocava nello spazio intermedio tra le due americhe: quella dei bianchi e quella dei neri, pur con tutte le inflessioni blues, rappresentava forse il legame, se mai ce ne doveva essere uno, tra questi due estremi.
Mentre il blues viene ancor’oggi attribuito esclusivamente al nero e alla sua esperienza solitaria in America e non può acquisire un significato più ampio di quello che ebbe all’origine, Regtime, dixieland e jazz sono considerati oggi un’esperienza americana che fa riferimento a qualcosa di molto vasto
Dallo swing al free jazz passando per la guerra
Col passare degli anni l’espressione del jazz si modificherà più volte, come si modificherà il rapporto sociale tra i neri e i bianchi che fin dall’inizio si erano mescolati nelle diverse fisionomie musicali. Con la grande migrazione di musicisti da Chicago a New York, verso la seconda metà degli anni ‘20 fino agli anni ’40, si cominciò a delineare un nuovo stile musicale che, sulla base della musica suonata alla maniera di New Orleans e Chicago, diede origine ad uno dei più importanti momenti del jazz nella sua massima affermazione in pubblico: lo Swing.
Considerato il genere musicale popolare americano degli anni ‘30 e ‘40, in origine nasce come musica dei neri ma, grazie soprattutto alla celebrità di alcune orchestre bianche, come quelle di Benny Goodman e Artie Shaw, il jazz poté godere di un successo prima inesistente.
Le orchestre più grandiose erano senza dubbio quelle dei neri che fissarono le fondamenta strutturali delle big bands, in particolare quella sofisticata di Duke Ellington e quella di Count Basie che inventò il cosiddetto sound di Kansas City. Queste orchestre sapevano “swingare” come nessun’altra orchestra bianca sapesse fare a quel tempo, ma pareva che per raggiungere successo bisognava essere bianchi e neanche il conformismo più efferato poteva bastare.
All’interno delle strutture orchestrali vi erano tre distinte sezioni di fiati: trombe, tromboni e sassofoni, che andavano dai tre ai cinque strumenti per sezione, oltre ad una sezione ritmica formata da pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. Lo stile si caratterizzava per la personalità del loro leader il quale definiva l'impostazione del suono dell’intera band attraverso gli arrangiamenti scritti. Completavano il quadro le improvvisazioni dei solisti e sono proprio le big bands che permisero la naturale affermazione dei migliori solisti.
A livello economico, se gli anni della Prima guerra mondiale offrirono nuove prospettive economiche, nel 1929 con la Depressione americana, moltissime fabbriche e uffici chiusero e nel 1932 quasi quattordici milioni di persone erano rimaste disoccupate. I licenziamenti di massa della Ford portarono molti operai, soprattutto neri, ad elemosinare un altro posto di lavoro. Questo stato di improvvisa decadenza economica, trovò eco nella musica, molti night club e cabaret chiusero licenziando cantanti e musicisti. Anche l’intera industria discografica fallì nel giro di poco tempo.
Il 1938 vide una lieve ripresa, la guerra imminente e il conseguente incremento della produzione bellica, rese possibile il reinserimento nel mercato del lavoro di una massa ingente di disoccupati (dieci milioni nel 1938 a fronte dei tredici milioni del 1932). Ci fu una nuova emigrazione in massa dei neri verso i grandi centri industriali di Detroit, dove si fabbricavano carri armati e jeeps anziché automobili. A New York, Chicago, Filadelphia, Pittsburg, Oakland e Los Angeles, per quanto possibile i neri dovettero battersi per non sottoporsi a risposte discriminatorie nelle assunzioni e in generale nella vita all’interno delle fabbriche.
Dalla seconda metà degli anni trenta, per circa un decennio, il jazz divenne una musica dì intrattenimento di largo consumo, il ritmo era scorrevole ed elastico, più “ballabile” e le melodie più “cantabili”. Il tentativo di rendere commerciabile il jazz comportò necessariamente il sacrificio di alcuni dei suoi caratteri più tipicamente neri. Nella minoranza di colore iniziò un progressivo adattamento ai valori della cultura bianca, che si andava accentuando in corrispondenza di una crescente borghesia nera. L’atteggiamento di questi continuava a seguire, forse più che in passato, la scia delle imitazioni dei comportamenti e delle sembianze del bianco. Avevano successo coloro che smerciavano intrugli per stirare i capelli crespi e per schiarire il colore della pelle di chi si vergognava del proprio.
A ridosso degli anni Quaranta l’espressione contemporanea della tradizione musicale afroamericana era quella urbana che si sviluppava nel contesto di vita delle grandi città industriali del nord. L’esodo in massa dei contadini dal Sud aveva trasformato radicalmente l’assetto sociale esasperando sempre più l’odio razziale e la discriminazione da parte del mondo produttivo. Per i neri erano possibili solo i lavori più umili e dequalificanti.
Sul fronte del conflitto razziale sembrava che il problema della convivenza potesse essere risolto gradualmente e la musica giocò un ruolo di importante mediatore, grazie al quale molti affermano che il jazz, nell’“era dello swing” fu la musica di tutti gli americani. Infatti, ad un osservatore superficiale, il decennio dello swing, può sembrare il tempo dell’embrassons nous (abbraccio) fra bianchi e neri per lo meno intorno al piccolo mondo che gravitava intorno alle orchestre di jazz. La musica operò il primo timido avvicinamento tra diversi, nonostante i moltissimi limiti e le restrizioni sociali. Risale a questo periodo la prima uscita in pubblico dei musicisti bianchi insieme con qualche nero. Per esempio, Benny Goodman chiamò nel suo trio Teddy Wilson e in modo simile non mancarono le orchestre nere che utilizzavano arrangiamenti scritti da bianchi per venire incontro ai gusti del pubblico, il più delle volte bianco.
Se la Prima guerra mondiale e la Depressione avevano prodotto il nero “moderno”, la Seconda guerra mondiale portò un cambiamento ancora più radicale nella psicologia del nero americano che passò per una maggiore consapevolezza della propria condizione sociale e per la rivendicazione dei propri diritti attraverso i primi movimenti sociali contro la discriminazione razziale.
Le prime sommosse di Harlem risalgono al 1935 e sconvolsero l’intera comunità. Il fiorire culturale degli anni Venti definito il “Rinascimento di Harlem”, legato ai nomi di Billie Holiday, Duke Ellington e Fats Waller e che portò la città ad assumere il primato di capitale dell’America Nera (la “Parigi nera”), cessò proprio allora di essere meta turistica per le signore in ermellino e la clientela dei migliori locali notturni cominciò a diradarsi fino alla loro chiusura.
Nel 1941, ci fu un’iniziativa di Philip A. Randolph (socialista e sindacalista), che minacciava di organizzare una marcia su Washington se l'amministrazione federale non avesse deciso di farsi carico del problema della segregazione razziale nel mondo del lavoro. Questa iniziativa, la prima nel suo genere, fu un momento fondamentale per la presa di coscienza del proletariato di colore.
“(Il movimento) vuole essere totalmente nero e pro-nero, ma non antibianco o antisemita, antiproletariato o anticattolico. Lo scopo di questa politica è che tutti i popoli oppressi devono assumere la propria responsabilità e prendere l'iniziativa di auto liberarsi: il valore essenziale di un movimento completamente nero, come quello per la marcia su Washington, è che permette la formazione di una fede dei neri nei neri, con dei neri che per questioni vitali dipendono soltanto da neri. Tutto ciò contribuisce a infrangere la mentalità schiavista e il complesso di inferiorità che si ingigantisce quando i neri dipendono dai bianchi e a questi si appoggiano in cerca di una guida e di un sostegno” (Philip A. Randolph, 1941).
Roosevelt, allora Presidente degli Stati Uniti, non poteva permettersi una dimostrazione di malcontento all'interno del suo paese mentre era impegnato a fronteggiare le potenze dell'asse. Sia l'opinione pubblica che gli stessi politici erano spaventati dalla prospettiva di ingenti masse di neri in movimento per la rivendicazione di diritti. Le richieste di Randolph furono accolte. Roosevelt emanò il famoso decreto: Executive order 8802, che vietava la discriminazione nelle industrie di guerra attraverso l’istituzione di una Commissione Federale per le fair employment practices. Il provvedimento di per sé non significò molto perché non prevedeva concrete misure di difesa; però fu una vittoria morale per la popolazione di colore che dimostrò come l'attivismo nero potesse dare i suoi frutti. La mancata marcia su Washington fu l'esempio su cui si basarono tutti i futuri movimenti di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta.
Nel 1943 le città industriali si gonfiarono, ribollirono e scoppiarono, soprattutto a Detroit dove la popolazione cresceva a dismisura per le incessanti emigrazioni dal Sud agricolo. Ci fu un subitaneo aumento dei prezzi degli affitti, scioperi di protesta nelle fabbriche, aumentarono i tumulti sociali e il malcontento del proletariato nero. Il disgusto e il risentimento verso lo status quo del nero cominciava a sfociare in episodi di violenza razziale che diedero inizio ai primi concreti movimenti sociali e le prime rivolte contro le disuguaglianze. La più rilevante fu probabilmente la rivolta di Harlem del 1943, durante la quale i neri ruppero vetrine e cose di proprietà dei bianchi.
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La discriminazione razziale, giocò un ruolo ambivalente negli ambienti musicali: mentre i musicisti neri potevano esibirsi all’interno dei locali jazzistici, il pubblico degli ascoltatori che poteva accedervi doveva essere esclusivamente bianco e questo ebbe notevoli conseguenze sia sull’atteggiamento degli artisti neri (come il fenomeno dello “zio Tommismo”) che sulla qualità della loro musica. Billie Holiday pronunciò parole amare su questo argomento: “… fraternizzare con i bianchi era proibito nel modo più assoluto: appena finito il nostro numero, ci toccava scappar via dalla porta posteriore e metterci a sedere nel vicolo, fuori”. Un giorno Billie fu licenziata insieme a Teddy Wilson, perché si era intrattenuta al tavolo con Charlie Barnet che veniva spesso a farle visita.
Al Village” e nella “Swing Street” si cominciarono ad aprire le porte al pubblico di colore solo intorno al 1942-43, quando i pregiudizi dei gestori dei club poterono ritenersi in larga misura superati.
Integrazione o assimilazione negli anni Quaranta
I musicisti neri degli anni Quaranta capivano il senso di frustrazione e repressione che la società offriva loro: la via dell’integrazione sembrava dovesse passare inevitabilmente attraverso il conformismo e la rinuncia da parte del nero a quanto di più importante possedeva. Lo swing ne era stata la prova: non era bastato rinunciare al meglio della cultura musicale afroamericana per avere successo bisognava essere bianchi, e a nulla valevano tutti i tentativi e gli espedienti estetici di imitazione. Un individuo non poteva conservare la propria individualità, né un gruppo mantenere la propria caratteristica di gruppo, per quanto validi fossero i rispettivi referenti culturali.
Molti musicisti neri furono tentati di assumere verso i bianchi che li ascoltavano un atteggiamento compiacente, servile, che i loro più dignitosi fratelli “di razza” definivano con disprezzo: “zio Tommismo”. Fare lo zio Tom non denotava solo dare al pubblico bianco ciò che questo voleva, ma recitare la parte del “negro” visto secondo l’ottica distorcente del pregiudizio razziale, proprio come i neri venivano visti negli spettacoli dei minstrels. Significava presentarsi dinanzi all’uditorio con l’aria e gli atteggiamenti del “negro infantile”, allegro, che riconosce con letizia la propria inferiorità. Questo significava anche presentare la propria musica come qualcosa di deteriore, di scarsamente importante che serve solo a trascorrere qualche ora in allegria.
Per esempio, Louis Amstrong, uomo intelligente e dal carattere tutt’altro che accomodante, per il suo pubblico era il ragazzone, sempliciotto, buffo e allegro. Billie Holiday, una volta prese le sue difese dicendo che Louis “faceva il Tom dal profondo del suo cuore!”.
La “swing craze” (la pazzia per lo Swing), che era esplosa durante gli anni Trenta, ad un certo punto, divenne la musica americana per eccellenza. Le orchestre bianche si erano impossessate dello Swing e ne avevano ammorbidito le caratteristiche “nere” trasformandolo in un prodotto di largo consumo e di diffusione planetaria: dovunque arrivava la cultura americana (con i film, la radio o l'esercito americano) arrivava al seguito lo Swing. Accadeva sempre che le innovazioni lanciate dalle comunità nere finivano per essere inglobate nella cultura di massa. Possiamo dire che la più grande conquista per gli afroamericani è stata forse la possibilità di autogestirsi. La loro capacità di non fare quello che il sistema dominante avrebbe voluto che facessero. Per questo la musica, come la schiavitù, hanno saputo riscattarsi da forme di prevaricazione e di dominio, trovando sempre nuove vie per la giustizia sociale e l’affermazione dei propri tratti.
Quando uno schiavo fugge, non può dormire due notti nello stesso posto. Devi scappare devi muoverti, devi cercare il prossimo posto e poi quello dopo ancora. Perché? Perché altrimenti ti catturano. (LeRoi Jones)
E lo stesso vale per la musica. Se ti fermi vieni inghiottito dal commercio.
Il livellamento culturale tra bianchi e neri fu un fenomeno diffuso che colpì molte grandi città del Nord e del Midwest. Sebbene non si possa sfuggire all’alterità, come afferma Apparaudi, l’orientamento generale era quello di appianare ogni diversità culturale. Basti pensare che certi giovani bianchi presero a modello l’appariscente abbigliamento zoot suit dei neri della Lenox Avenue, che era il segno distintivo di una certa identità del maschio nero americano e che Cab Calloway rese pubblicamente visibile nelle sue esibizioni. L’esagerazione delle ampiezze degli abiti, l’eccessività dei gesti e il gergo tipico definito bob talk (o hip talk), marcavano lo stile zootie come grottesco, nel senso di iperbolicità: giacca lunghissima, spalle molto imbottite, pantaloni larghi al ginocchio e stretti in fondo, cappello a larghe tese e catena per l’orologio erano segni tipici di un egualitarismo sociale.
Un diretto erede dello zootie fu lo stile hipster che ruotava intorno ai musicisti bebop degli anni Quaranta quali: Monk, Parker e Gillespie. Gli appassionati di musica nera vedevano nel nero l’ideale di non conformismo cui essi aspiravano e i bopper bianchi, fans accaniti di questi musicisti, erano tanto marginalizzati dalla società quanto i neri, ma lo erano per loro scelta. È chiaro che un bianco con vestiti da nero e che parla come un nero non può far parte della società mainstream americana, ma questo dipende dal fatto che lui non lo vuole. Per i neri non era una questione di scelta, essi cominciarono a rendersi conto che essere neri in America faceva di loro dei non conformisti e questa posizione assumeva un valore sociale in un ambiente in cui la cultura degenerava nel conformismo e nella superficialità. La peculiarità di una precisa estrazione culturale contribuisce a rafforzare la separazione, e i giovani musicisti degli anni Quaranta, che l’avevano compreso, cercarono di rendere significativa questa separazione.
Ciò che qui è importante mettere in risalto sono due diverse forme di assimilazione o di sintesi, che si verificarono fra le culture americane nera e bianca. Da un lato la spinta “verticale” che la cultura mainstream bianca imponeva alle minoranze e la tensione psicologica vissuta soprattutto dalla borghesia nera, che portò inevitabilmente ad abbandonare ogni legame per il proprio retroterra culturale in favore di una tranquillità sociale e psicologica. Dall’altro la sintesi “orizzontale”, come forma di scambio esperienziale in cui ogni differenza portava ad un ampliamento e arricchimento culturale.
Mentre la prima forma è quella che chiamiamo dell’assimilazione che tende a distruggere ogni cultura specifica rendendo così l’altra meno vitale, la seconda riesce ad infondere un certo non conformismo, preservando i caratteri culturali dei singoli gruppi, e questo tipo di sintesi è ciò che si verificò nella società (occidentale) dopo la Seconda guerra mondiale e ancora di più dopo la guerra di Corea.
La Seconda guerra mondiale
Inizialmente le forze armate non erano disponibili a reclutare persone di colore, ma le necessità belliche portarono al superamento di questo pregiudizio. Rimase invece insuperato il problema della discriminazione razziale all’interno dell’organizzazione militare. La maggior parte dei neri prestavano servizio in unità segregate, in luoghi di ricreazione, nelle mense. L'esempio forse più raccapricciante è che anche il sangue usato dalla Croce Rossa per curare i feriti era rigorosamente “segregato”. L'esercito americano si trascinò dietro per tutta la guerra un terribile paradosso: se da un lato l’America rappresentava lo stato che più era impegnato nella lotta contro i regimi nazi-fascisti, portatori per eccellenza di valori razzisti, dall’altra li combatteva per mezzo di forze che praticavano esse stesse la segregazione razziale. I prigionieri di guerra nazisti spesso furono trattati meglio dei soldati di colore e questo faceva aumentare la sfiducia verso una possibile integrazione.
Tuttavia, la partecipazione delle “Unità Negre” nelle forze armate americane alla fine si rivelò molto più cospicua rispetto alla Prima guerra mondiale, un quarto dell'esercito americano era costituito da uomini di colore, e il loro ruolo fu decisamente più rilevante, tanto che, in molti casi, furono schierate unità nere al fianco di quelle bianche. Le cifre ufficiali della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), a tal proposito, parlano chiaro: nella Prima Guerra Mondiale c'erano 404.348 soldati e 1.353 ufficiali neri, nell'ultima guerra i soldati furono circa 905.000 e gli ufficiali circa 8.000. Si evince da tali cifre che, se il numero dei soldati era poco più che raddoppiato, quello degli ufficiali era aumentato di quasi sei volte, a testimonianza della crescente necessità di reclutare risorse umane.
La musica prese in prestito dalla guerra molti temi che entrarono nel repertorio di diversi blues. Tra le comunità nere era molto popolare la canzone «Are you ready?» che esaltava l'eroismo dei neri in guerra e che, proprio nel titolo, conteneva l’espressione diventata poi familiare nel gergo dei neri e stava a significare «Sei pronto?» (ad entrare nell'America bianca), l’essere pronti era motivo di orgoglio e di appartenenza agli Stati Uniti, mentre il non esserlo assumeva un senso spregiativo che apparteneva ai neri “volgari” o comunque non rispettosi delle convenzioni sociali dei bianchi.
Nonostante la guerra avesse creato un illusorio senso di partecipazione sociale dei neri, i giovani che tornavano dalla guerra, dopo avere rischiato la pelle per la nazione, continuavano ad essere considerati una specie subumana, l’America era la loro patria finché rimanevano buoni al loro posto. La accresciuta consapevolezza alle spinte repressive finì per alimentare un risentimento nei riguardi delle ingiustizie sociali. I neri si sentivano parte della società, avevano contribuito a liberare l’Europa dal nazi-fascismo e chiedevano alla democrazia risposte adeguate al suo nome e non una apparente uguaglianza di facciata. Un senso di cinismo permeò fortemente il modo di porsi dei giovani neri degli anni Quaranta. Amiri Baraka afferma che nei quartieri neri la domanda che più ricorreva era: “come mai la bomba non l’hanno lanciata sui tedeschi?”, ci si chiedeva se non fosse stato un sentimento di discriminazione razziale a guidare il Presidente Truman nella terrificante decisione di sganciare la bomba sui “gialli” anziché sui tedeschi. Per questo atteggiamento indisciplinato e anticonformista, i neri erano ancor più rifiutati dalla società, ma non era questo il vero motivo della loro esclusione, in verità il motivo rimaneva l’indissolubile fatto di “essere neri”.
La musica cominciò a viaggiare sui primi supporti di incisione. I dischi di blues e di jazz si vendevano in maniera considerevole e il nero come consumatore era una prospettiva assolutamente nuova, inaspettata rispetto al ritratto che l’America si era fatta di lui. Il progresso tecnologico e i mezzi di comunicazione di massa, permisero una facile divulgazione della musica. L’ascolto attraverso la radio non consentiva di risalire al colore della pelle dei musicisti, tant’è che il jazz dei primi albori passò per una volgarizzazione bianca di precedenti forme di blues. Questo nuovo sistema di diffusione contribuì alla creazione di stili e alla nascita dei primi divi a cui seguirono i tentativi di imitazione dei cantanti e dei musicisti di maggior rilievo.
Durante la guerra gli unici dischi prodotti erano i “V discs”, incisi esclusivamente per le forze armate e su cui venne registrato il miglior jazz dell’epoca. Il sindacato musicisti americano mantenne per tutto il periodo bellico uno sciopero delle registrazioni discografiche con lo scopo di ottenere i diritti d’autore sulle trasmissioni radiofoniche per gli strumentisti che prendevano parte alle incisioni. Il sindacato la spuntò, ma nel frattempo, la mancanza di dischi aveva determinato un rapido affievolimento dell’interesse pubblico per le orchestre swing, che finirono per passare di moda. A questo si aggiunse lo scioglimento di molti gruppi per il continuo richiamo alle armi di molti musicisti.
L’era dello swing finì così, nel silenzio degli studi di registrazione, mentre la musica valicava i confini arrivando agli europei che, proprio attraverso i “V discs” dell’esercito americano, potevano godere e associare questa nuova musica alla liberazione del paese.
In America molti fra i più rigorosi studiosi del jazz pensarono che lo swing avesse ormai esaurito il suo corso, chiudendo ogni prospettiva per il jazz in genere, eppure tutto stava per ricominciare, c’era stata una guerra dopotutto, che aveva profondamente mutato la coscienza culturale del popolo americano.
