

SARA’ SICURO VENIRE A SCUOLA DI MUSICA? QUALI SARANNO LE MISURE DI PREVENZIONE ANTI COVID PRESE DA OFFICINE MUSICALI PER FARE LEZIONI DI MUSICA IN SICUREZZA?
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La ragione per cui abbiamo deciso di chiudere la scuola prima del lockdown è proprio perché non abbiamo voluto mettere a rischio i nostri allievi. Anche se in Italia i numeri relativi all’andamento del Covid-19 sollevano una certa preoccupazione, gli esperti sostengono che rispetto alla scorsa primavera, la situazione è ben diversa perchè il paese ha imparato ad affrontare l’emergenza con misure preventive e cautelative. All’interno della scuola delle Officine viene garantita una regolare sanificazione delle aule e degli strumenti, la bonifica degli impianti di areazione e un completo ricambio d’aria all’interno dell’aula. Le regole che siamo tenuti a rispettare sono poche e semplici: disinfettarsi le mani con il gel appena si entra, usare la mascherina negli spazi comuni mantenere la distanza di un metro, viene chiesto un monitoraggio personale della temperatura: chi ha una temperatura superiore a 37 gradi non potrà venire a scuola. Le lezioni verranno recuperate in ogni caso.
L’ampiezza delle aule garantisce una distanza dall’insegnante superiore al metro e mezzo. Per Laboratori e altre attività che prevedono la presenza di più persone vige lo stesso criterio: protezione, distanza e limite massimo di persone consentite nell’aula. Per quanto riguarda le attività corali, vista l’impossibilità di portare la mascherina, abbiamo deciso di garantire una protezione con pannelli di plexiglas.
Speravamo che tutto fosse finito con l’estate, ma evidentemente le discoteche, i locali pieni e le spiagge gremite non hanno permesso la regressione del virus. Noi siamo ancora qui a cercare di fare quello che il comune buonsenso avrebbe dovuto suggerire… e non è poi così duro. Studiare uno strumento non è come andare in discoteca.
Facciamo tutto il possibile per non dover tornare a chiudere le scuole… BASTA SOLO UN POCO DI ATTENZIONE.

salotto culturale del jazz
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Il Bebop
Possiamo affermare che l’atteggiamento e le prospettive del nero nei confronti dell’America, tra gli anni Trenta e la fine della Seconda guerra mondiale, subirono un radicale cambiamento se lo rapportiamo alla stasi del lungo periodo ad iniziare dalla deportazione degli schiavi. La borghesia di colore era cresciuta, così come il livello culturale e scolastico della popolazione. Intorno alla metà degli anni Quaranta, il nero aveva acquisito la ferma consapevolezza di essere diventato parte integrante della società americana, grazie anche alla guerra. Il popolo era in rivolta e la strada verso l’affermazione del nero era ormai aperta. Mentre ad Harlem e Detroit, nel 1943, si scatenava la popolazione, era in fase di incubazione un altro tipo di rivolta: il bebop, una musica che nasceva dalle improvvisazioni di alcuni tra i più dotati musicisti neri che si ritrovavano nei locali di Harlem, nella 52ima strada, dopo il lavoro regolare nelle orchestre Swing.
La nascita del bebop trovò terreno fertile in un periodo di grande incertezza, durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Le rivolte e le contraddizioni interne all’America, direttamente connesse alla temperie psicologica dell’epoca, si riversavano nei caratteri di quella particolare musica la cui “asprezza” e ’“asimmetria” erano il prodotto di determinati atteggiamenti e modi di pensare il mondo.
Langston Hughes, nel New York Post, scrisse del bebop:
“… la vera musica bop è esasperata, selvaggia, frenetica, pazza e chi non ha conosciuto giorni scuri non la può capire. Coloro che non hanno provato grandi sofferenze non possono suonare il bop, e tanto meno apprezzarlo”.
Se a prima vista l'associazione stretta tra bebop e sofferenza sembra essere un po' troppo forzata e deterministica, è però confermata dagli stessi musicisti, come il trombettista Dizzy Gillespie, uno dei padri del bop, che associa la sua musica al colore della pelle: - “Se non fossi così scuro non sarei capace di suonare a questo modo” - rispose un giorno a un direttore d'orchestra bianco che si complimentava con lui per la sua grandezza musicale e si doleva, nello stesso tempo, di non poterlo scritturare perché di colore.
In maniera molto fantasiosa, Langston Hughes associò la violenza espressiva del bop alla rivolta di Harlem del 1943: "E' la polizia che picchia sulla testa dei neri che ha ispirato il bop. Ogniqualvolta uno sbirro colpisce un nero con il suo manganello, questo maledetto bastone fa: Bop Bop!…Be Bop!… Mop Bop! Tale è l'origine del bebop; il ritmo dei colpi sulla testa del nero è passato direttamente nell'interpretazione che danno del bebop trombe, chitarre e sassofoni”.
“Bebop” è, in realtà, un termine onomatopeico che traduce, nel vocabolo, il motivo costituito da due note ricorrenti in un brano suonato spesso dal quintetto di Dizzy Gillepie, che finì per essere denominato proprio “bebop”.
Il bebop fu rivoluzionario non solo nei contenuti musicali, ovvero nelle innovazioni melodiche e armoniche in senso stretto, ma nel messaggio di fondo che voleva lanciare. Dopo lo swing che negli ultimi anni aveva preso la via del consumo di massa divenendo una musica insignificante e mediocre, i giovani ribelli - ovvero i musicisti del bebop - volevano proporre qualcosa di diverso da quanto avevano fatto i jazzisti prima di loro. Prendendo le distanze dallo Swing volevano superare quelle forme ormai obsolete e inadatte ad esprimere il “nuovo nero”. La loro musica fu il risultato di consapevoli tentativi di sottrarre l’arte al pericolo di diluirsi nella banalizzazione del mainstream, pertanto, era come se l’arte dovesse ad ogni costo essere incompresa. I musicisti dovevano essere originali, autentici e non semplici interpreti né imitatori di una musica già esistente. Si riappropriarono gradualmente del jazz per restituirlo alla popolazione di colore e tale riappropriazione venne compiuta tenendo presenti quelle che erano le radici culturali dell'universo nero, in prima battuta il blues e la tradizione musicale afroamericana, i cui segni tipici erano nell'oralità della comunicazione e nella pratica dell'improvvisazione.
L’idea di avere delle radici e che queste potessero costituire un patrimonio di valore anziché una insradicabile vergogna, è forse il cambiamento più profondo operatosi nella coscienza nera dal principio del secolo. La nascita del concetto delle “pari opportunità” consentì di guardare alle barriere dell’emarginazione come a un’invenzione del bianco. La forma e il contenuto della musica (dagli anni Quaranta in poi) consentirono al nero di sentire meno pesante il senso di inferiorità che aveva caratterizzato la sua vita e contribuirono a rafforzare l’alienazione storica e sociale, ma dal suo punto di vista.
Improvvisazione significava libertà creativa e liberazione dagli schemi precostituiti dello Swing che nel giro di pochi anni era diventata, sull’impronta estetica occidentale, una musica quasi completamente scritta, che non lasciava spazio per l’improvvisazione e la capacità inventiva. Molti giovani musicisti neri capirono che il ruolo loro assegnato in qualche grande orchestra swing, non gli consentiva più di esprimersi compiutamente. Sentivano che si sarebbe dovuto o potuto fare qualcosa di meglio che una musica destinata a scatenare i jitterbugs (gli appassionati di swing) sulla pista di qualche sala da ballo. Tuttavia nessuno dei musicisti neri si assunse il ruolo di riformatore per una rivoluzione che ribaltasse l’ordine naturale di una cultura forgiata a misura dei musicisti e impresari bianchi. Gli alfieri dello Swing bianco, impossessandosi della musica nera avevano finito per distruggerla nei tratti più tipici, le loro azioni erano guidate da un lato l'esigenza commerciale di produrre una musica di facile ascolto, dall'altra la persistente idea che il jazz era un patrimonio di idee che si potevano assimilare all'interno del contesto più generale della cultura occidentale. Furono rimesse in discussione la nozione di musica come prodotto di largo consumo e oggetto di mercato. Sperimentalismo e anticommercialismo erano, quindi, le peculiarità del primo bop. In questo senso i bopper furono radicali nel difendere la ricerca di una nuova identità culturale.
Si narra che il bebop fece la sua prima apparizione nei locali della 52° Strada nel 1944, ma in realtà c’erano stati dei momenti costituenti precursori. Alcuni solisti, affermatisi già intorno agli anni Trenta, si esibivano la sera tardi, in qualche localino di Harlem (come il Milton’s Playhouse) dove i bianchi, di solito, non entravano. Milton, ex sassofonista e proprietario del locale, ospitava numerosi musicisti (Thelonious Monk, Art Tatum, Teddy Wilson, Benny carter, Chu Berry, Mary Lou Williams, Lester Young, successivamente Charlie Parker, Bud Powell ed altri), i cosiddetti after hours bebop che, dopo i concerti delle grandi orchestre swing, si riunivano liberi dai vincoli del leader d'orchestra e del pubblico da compiacere. Questi musicisti sperimentavano sempre nuove soluzioni musicali fino a codificare il bop in uno stile che si affermò in maniera graduale e spontanea prendendo in prestito la creatività di questi artisti. I caratteri stilistici e le originalità a volte nascevano per caso, altre si sperimentavano a freddo e si diffondevano, in breve, attraverso le infinite formule musicali (o pattern) che venivano cristallizzate e riprodotte nella ristretta cerchia dei cultori. La predilezione delle armonie dissonanti, l’intervallo di quinta diminuita, le blue notes, l’invenzione di nuovi temi (sovrapponendo le linee melodiche agli accordi di alcuni standards), le melodie bizzarre ed estremamente dinamiche, le eccentriche improvvisazioni sugli accordi, l’uso dei cromatismi …. Cominciava a incrinare la salda concezione tonale del jazz, al punto da giungere, specie con Parker ai confini con la politonalità. La ritmica seguiva una metrica più libera che dava respiro alle pause rendendo espressivi i silenzi…
“Il nero accettava il 2/2 e 4/4 solo come una cornice in cui infilare i disegni della propria fantasia… sperimentando diversi modi di adattamento dentro lo spazio di una battuta” (A. Hodeir, Jazz: its evolution and essence).
In sintesi, il jazz stava cambiando, diventava maturo, intellettuale, impegnato e deliberatamente rivoluzionario. Essendo un movimento volutamente di nicchia (a volte quasi privato), molte delle idee musicali scaturite a quel tempo non furono mai registrate né messe per iscritto.
I primi che accorsero ad ascoltare quella musica rimasero sconcertati, si sollevarono molte polemiche e dispute sui pro e i contro. L'entusiasmo dei nuovi adepti conquistati dalla novità si scontrava con la resistenza e l'ostilità del pubblico di massa. Il piccolo mondo del jazz, fino a poco prima compatto, solidale e concorde, si divise: da un lato si schierarono i sostenitori del nuovo verbo e dall’altro gli intransigenti custodi della tradizione, rappresentata soprattutto dai vecchi esponenti del jazz di New Orleans e di Chicago, e dalla nuova generazione dei revivalist (del dixieland, ragtime ed altre forme della tradizione musicale afroamericana).
“… appena fummo entrati” – all’Onyx durante un concerto di Dizzy Gillespie – “quei tipi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle.” – sono i commenti di alcuni membri dell’orchestra di Woody Herman.
La “forma-canzone” tipica dello swing veniva demolita e ricostruita in base a nuovi schemi interpretativi. C’era chi parlava di “scandalo” per le canzoni alla moda che venivano stravolte e rese irriconoscibili, per quelle nuove sonorità dissonanti ed estranee.
Quasi tutti i critici e scrittori che si occupavano di jazz, perlopiù bianchi, attaccarono la nuova musica che non rispettava i canonici requisiti di musica popolare e i giovani musicisti furono definiti “crazy” o “ragazzi dalle cattive compagnie”. L’”eresia del bop” (o le sue derivazioni), non apparteneva al jazz, ma era una musica che regrediva, era inferiore al primo dixieland o al New Orleans e di cui non si prospettava nessun futuro, una musica definita “antiumanistica” e completamente priva di consistenza o gonfiata a dismisura, una musica che non aveva alcuna funzione né emotiva né estetica, non poteva essere ballata come lo Swing.
Per Spellman, è inaccettabile che un bianco si possa sentire autorizzato a dare dei giudizi su come un nero dovrebbe esprimersi musicalmente.
La rivista “Downbeat” pubblicava molti articoli di critici anche reazionari che definivano la musica free di Coleman e di Coltrane con il termine “antijazz” evidentemente prendendo a prestito l’espressione di altri critici reazionari che si occupavano di altri campi artistici e che parlavano di “antiteatro” o “antipittura”. Per i critici bianchi, infatti, questa sensazione di appiattimento si estendeva anche in altre forme artistiche, “nessuno legge più Proust, e i pittori post Picasso sono sprofondati nel torpore e nella ripetizione”. Il be-bop si avvicinava al non sense musicale, non è jazz – sostenevano - ma una forma degenerata di swing.
Dovranno trascorrere diversi anni prima che il fenomeno bebop venga analizzato nelle sue motivazioni psicologiche e sociali. Non dobbiamo stupirci che l’autore di tale analisi sarà proprio uno scrittore nero, fra i più colti leaders del movimento nazionalista afroamericano degli anni sessanta: LeRoy Jones.
Molti altri critici posteriori ci hanno offerto un’altra verità: il bebop non solo ha rappresentato un’evoluzione, sia dal punto di vista sia ritmico che melodico e armonico, ma ha significato anche la completa rottura con una musica industrializzata e stereotipata che era suonata dalle orchestre più popolari in America, ovvero le orchestre bianche. Il bebop non voleva essere una musica da ballo, ma una musica pura, da ascoltare, e fu squisitamente e intrinsecamente nera. (Arrigo Polillo, 1975)
Non possiamo negare che il ritorno e l’egemonia dei poliritmi sulla melodia, tipico nel bebop, sono un carattere forte, molto più vicino ai modi africani di fare musica che non a concetti occidentali. Ma non possiamo negare che sono anche molte le influenze che la musica classica contemporanea apportò alla musica jazz degli anni Quaranta, e viceversa, nonostante alcuni studiosi privilegino, ancora oggi, l’interesse per il nero, negando all’Europa qualsiasi ruolo in termini di eredità culturale al jazz.
Nonostante le critiche e la riluttanza della massa, i suoni bebop non decadevano e a poco a poco fecero breccia divenendo, nel 1947, una realtà di cui tutti gli ascoltatori di jazz avevano dovuto prenderne atto. Si provò ad aprire la mente per capire cosa ci fosse di veramente innovativo rispetto al jazz attivo fino a quel momento. C’era chi parlava di rivoluzione, chi invece di aberrazione e puro esibizionismo, per molti era una musica che apparentemente sembrava una novità, ma di fatto stancava dopo qualche minuto perché non c’era nessuna melodia che si potesse ricordare o ritmo che si potesse ballare.
La provocazione dei bopper e il dissenso del pubblico furono i tratti che qualificarono come avanguardistico il movimento del bebop. Il jazz, proprio per il principio di un rinnovamento permanente e di opposizione si sistemi musicali esistenti, trovò posto tra le avanguardie che facevano capo al "modernismo" della seconda metà del Novecento (fino agli anni Sessanta), periodo che vide una decisa rivoluzione e una spinta all'innovazione nel mondo delle arti in genere. Dal futurismo al surrealismo, passando per la generazione perduta degli scrittori americani, c'era una comune matrice di rottura col vittorianesimo e il concetto imbalsamato di arte.
La caratteristica che accomunava i boppers, e nello stesso tempo li isolava dalla massa, era la “diversità”, un nuovo modo di pensare, non più oscuro, ma moderno e innovativo. Il musicista nero era “strano e bizzarro”, ma il mito di quella stranezza era così importante per l’America conformista che si reinventò un diverso concetto di alienazione, dentro cui anche i bianchi ritrovavano un rifugio di valori culturali e ideali con cui identificarsi.
Molti si convertirono all’islamismo, propagandato da un guru indiano, Ahmadiya. Trasformarono i loro nomi adottando nuovi nomi arabi. L’intenzione non era tanto quella di dimostrarsi a tutti i costi diversi, quanto trovare una soluzione ai difficili problemi posti dal colore della pelle. Un arabo musulmano, dopotutto, poteva essere rispettato, in America, più di un nero figlio di schiavi. “Diventando maomettano ci si sentiva meno americani e più africani, si prendevano le distanze dagli oppressori e si ritrova una parte di identità e dignità perdute sul suolo americano”. (Arrigo Polillo)
I boppers divennero in breve una vera e propria setta che prendeva le distanze con l’esterno e si uniformava al suo interno secondo tutte le regole di una vera e propria subcultura. Si imitavano l’un l’altro non solo a livello estetico ma anche nel modo di porsi e comportarsi, di gestire e di parlare. Ammiratori e amici (di qualsiasi colore), i cosiddetti hipsters scimmiottavano i musicisti. Non conformisti, aggiornatissimi, addentro alle cose segrete, gli “hip”, a cui si contrapponevano tutti gli altri, e cioè gli “squares” (quadrati), ovvero gli ottusi, i borghesi conformisti e non informati, che non condividevano l'eccentrica way of life dei boppers. Questo differenziarsi degli hipsters si manifestava in due modi: nel modo di apparire e nel linguaggio. Vestiti stravaganti, occhialoni scuri da sole portati anche nei locali al chiuso (a difesa di uno spazio intimo inviolabile dagli squares), il basco e il goatee sotto il labbro inferiore (quello che noi chiamiamo mosca) - e un gergo comprensibile solo agli adepti, un linguaggio in codice per iniziati che contribuiva a rafforzare l'isolamento e l’appartenenza.
Dai neri, gli hipsters bianchi – ovvero i “negri bianchi” (così venivano chiamati con disprezzo dalla borghesia) - cercavano di assimilare una filosofia di vita: l'importanza del presente e del piacere immediato e totale. Era un culto che offriva protezione ed esprimeva un senso di ribellione. Si cercava in questa musica una meta cultura, isolata come quella dei loro antenati ma che prendeva origine da una nuova sensibilità dell’americano nero, ormai a suo agio con i simboli socioculturali del pensiero occidentale.
L’isolamento sociale a differenza della vecchia emarginazione, si conformava, ora, di una nuova dignità intellettuale e psicologica. Se per i bianchi, la deviazione dagli schemi convenzionali era frutto di una libera scelta, non era così per il nero, il cui non conformismo durava da ormai trecento anni ed era determinato dal colore della pelle.
Come fenomeno subculturale, il bebop investì una cerchia relativamente stretta di persone (pochi giovani musicisti, pochi critici favorevoli e poco pubblico), che però rappresentò un passaggio culturale importante per la storia del jazz, il vero spartiacque che divideva la musica popolare dalla musica se non colta almeno di culto, la cui fruizione richiedeva un impegno e una apertura mentale di un altro livello rispetto allo swing.
L’esordio del bebop seguì un percorso simile a quello dello swing. In entrambi i casi il contributo iniziale fu indubbiamente dei neri che, attingendo delle tradizioni musicali del blues, erano riusciti a forgiare una musica esclusiva, viva, originale che poi veniva raggiunta dai bianchi che ne coglievano l’essenza edulcorandola in un prodotto di largo consumo.
Abbiamo detto che lo Swing era diventato un fenomeno di musica commerciale tipicamente bianco, le orchestre più famose erano bianche, ma non bisogna dimenticare l'apporto che i neri diedero inizialmente a questa musica e l'amore con cui l'avevano seguita. Gli stessi boppers avevano suonato nelle orchestre swing e avevano ripreso il discorso musicale dove lo avevano interrotto i grandi musicisti degli anni Trenta.
Philippe Carles e Jean-Luis Comolli, nella loro interpretazione marxista, puntano il dito sul sistema capitalistico che mise le mani sul bop. Secondo la loro ottica mancò una “presa di coscienza dei fenomeni politici ed economici”: i musicisti avevano rivolto la loro ricerca verso una forma di “attivismo estetico” fine a se stesso, rinunciando ad una contestazione globale del sistema. Mancò una “precisa presa di coscienza” e una attenta valutazione su ciò che stava accadendo nella società e sul problema della “colonizzazione del jazz” da parte del’ideologia dominante degli anni Cinquanta. Questo provocò un recupero del bebop da parte dello stesso sistema che ubbidiva alle esigenze del mercato. Il bop, che era nato da una rivoluzione musicale di artisti “antiborghesi”, finì definitivamente per essere inglobato e digerito. Il sentimento di rivolta venne tramutato in senso del tragico, le asprezze musicali furono interpretate come eccentricità da artisti. L’intellettualismo, la pubblicità creata attorno alle diatribe dei critici sull’autenticità artistica del bop, la moda del vestire, insomma tutti quegli aspetti più spettacolari vennero sfruttati per rendere digeribile il nuovo jazz facendolo diventare una moda e una musica di consumo. Il grande successo dei boppers fu di sovvertire l’immagine del nero come essere inferiore, ma in mancanza di una rivoluzione di tipo ideologico ne fecero lo stereotipo dell’artista anticonformista sul modello europeo. Questo era il pensiero di Philippe Carles e Jean-Luis Comolli che intravidero in questo un pericolo: la “trappola dell'eccentricità”, che consente da parte dell’ideologia dominante un recupero del bop. “Artisti e intellettuali, sia nella veste di sfruttati sia in quella di agenti di disturbo, conservano il ruolo di negri nella società capitalista. Lo sfruttamento culturale ed economico del bop poteva così avere inizio”.
La musica dei boppers era difficile e, passato il primo momento di curiosità, la gente smise di seguirla. Neppure i bianchi che si dedicarono al nuovo jazz riuscirono a farsi accettare dal grosso pubblico. Intorno al 1950 il mondo dei boppers neri era alla disperazione. Si salvavano quei pochi ce riuscivano a mantenere un dialogo aperto con il pubblico, conquistando la loro attenzione e il loro piacere, come Dizzy Gillespie, Charlie Parker e pochi altri. Questo non solo per causa di un senso di frustrazione che scaturiva dalla musica ma anche per colpa delle droghe che in quel periodo sconvolgevano e uccidevano molte vittime tra cui molti musicisti e talenti. Dal 1940, da quando molti si erano incontrati al Milton’s, al 1950, quando la loro musica fu spazzata via dalle crudeli leggi del mercato, la popolazione nera di New York era aumentata del 63 per cento. La più grande città degli Stati Uniti si era trasformata in una bolgia infernale, paradiso per trafficanti, ruffiani e spacciatori di droga all’ingrosso.
Chiunque potrà notare l'insolita percentuale di musicisti prematuramente scomparsi, dopo aver vissuto un'esistenza tragica. Sicuramente il musicista nero subì discriminazioni e maltrattamenti oltre ogni limite, ma anche il bianco non ne fu risparmiato. Se i musicisti tutti, degli anni Venti-Trenta caddero vittima dell'alcool, vedi Bix (1903 - 1931), Coleman Hawkins (1904 - 1969) o Lester Young (1909 - 1959), quelli del Quaranta-Cinquanta finirono schiavi di una vera e propria epidemia di eroina. Molti ne uscirono, ma l'elenco dei nomi di spicco di un’ipotetica lista di tossicodipendenti che ne rimasero intrappolati, ne include un numero altissimo. La frequenza nelle carceri o negli ospedali psichiatrici, conseguenza diretta o indiretta del tipo di vita che avevano intrapreso, era dolorosamente alta, quasi di ordinaria amministrazione e qualcuno ha osservato che il Bellevue Hospital di New York sia stato asilo del jazz moderno tanto quanto lo fu il Birdland (mitico locale dedicato a Charlie Parker), dove suonarono i più grandi talenti del jazz.
Per questi uomini del jazz, raggiungere la mezza età appariva quasi un sogno e anche quelli che la raggiunsero, ci arrivarono consumando interi periodi della propria vita. Addirittura quello riconosciuto come il primo jazzman della storia, Buddy Bolden (1877 - 1931), perse la ragione durante una parata e trascorse gli ultimi ventiquattro anni della sua vita in manicomio. Jelly Roll Morton (1890 - 1941) spiegò: «Bolden impazzì perché si fece scoppiare il cervello a furia di soffiare dentro la sua tromba».
Al di là di questa frase ironica, quello che può farci riflettere è che questo genere di musica, soprattutto quella che va dagli anni Quaranta a metà degli anni Cinquanta, avanzò come il divampare di un incendio.
“Alcuni autori hanno osservato che col bebop il jazz ha raggiunto uno stadio di civiltà armonica pressappoco corrispondente a quello raggiunto dalla musica europea con Wagner e Debussy. Va ricordato a questo proposito che il jazz, nella sua rapidissima evoluzione, ha percorso in pochi decenni un cammino analogo a quello della musica europea dalle origini a oggi”. Questo è quanto ha affermato Arrigo Polillo in merito al contributo del jazz di questa epoca.
