

SARA’ SICURO VENIRE A SCUOLA DI MUSICA? QUALI SARANNO LE MISURE DI PREVENZIONE ANTI COVID PRESE DA OFFICINE MUSICALI PER FARE LEZIONI DI MUSICA IN SICUREZZA?
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La ragione per cui abbiamo deciso di chiudere la scuola prima del lockdown è proprio perché non abbiamo voluto mettere a rischio i nostri allievi. Anche se in Italia i numeri relativi all’andamento del Covid-19 sollevano una certa preoccupazione, gli esperti sostengono che rispetto alla scorsa primavera, la situazione è ben diversa perchè il paese ha imparato ad affrontare l’emergenza con misure preventive e cautelative. All’interno della scuola delle Officine viene garantita una regolare sanificazione delle aule e degli strumenti, la bonifica degli impianti di areazione e un completo ricambio d’aria all’interno dell’aula. Le regole che siamo tenuti a rispettare sono poche e semplici: disinfettarsi le mani con il gel appena si entra, usare la mascherina negli spazi comuni mantenere la distanza di un metro, viene chiesto un monitoraggio personale della temperatura: chi ha una temperatura superiore a 37 gradi non potrà venire a scuola. Le lezioni verranno recuperate in ogni caso.
L’ampiezza delle aule garantisce una distanza dall’insegnante superiore al metro e mezzo. Per Laboratori e altre attività che prevedono la presenza di più persone vige lo stesso criterio: protezione, distanza e limite massimo di persone consentite nell’aula. Per quanto riguarda le attività corali, vista l’impossibilità di portare la mascherina, abbiamo deciso di garantire una protezione con pannelli di plexiglas.
Speravamo che tutto fosse finito con l’estate, ma evidentemente le discoteche, i locali pieni e le spiagge gremite non hanno permesso la regressione del virus. Noi siamo ancora qui a cercare di fare quello che il comune buonsenso avrebbe dovuto suggerire… e non è poi così duro. Studiare uno strumento non è come andare in discoteca.
Facciamo tutto il possibile per non dover tornare a chiudere le scuole… BASTA SOLO UN POCO DI ATTENZIONE.

salotto culturale del jazz
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Il Free Jazz
A metà degli anni Cinquanta l’America era diversa da quindici anni prima. Le due guerre, la guerra fredda e la bomba atomica avevano trasformato il mondo in un luogo senza frontiere, un oikoumene globale abitato da un popolo dalle cui mani dipendeva la sopravvivenza o la distruzione dell’umanità. Le guerre eroiche per la democrazia si erano sinistramente ridotte a operazioni di polizia, la stessa parola “democrazia” si macchiava da un altro significato che era quello del”anticomunismo”.
La travagliata storia degli afro-americani entrava nella sua fase più drammatica: il conflitto tra la minoranza di colore e l’establishment bianco, sempre latente, stava per esplodere in rivolte sociali cruente e conflitti sanguinari.
Tutto iniziò nel dicembre del 1955, quando Rosa Park, una signora di colore, sarta al servizio dei bianchi, un giorno, stanca da una giornata di duro lavoro, si rifiutò di cedere il posto ad un passeggero bianco su un autobus di Montgomery, nell’Alabama. Quella che era sempre stata la regola nel Sud razzista veniva violata e l’arresto immediato della donna suscitò una reazione di ribellione nella comunità nera senza precedenti per intensità e durata. Rosa Park divenne il simbolo di un movimento per la rivendicazione dei diritti del nero guidato da Martin Luter King. Si decise di boicottare gli autobus della società implicata nella vicenda per qualche giorno, ma l’iniziativa durò più di un anno e portò sull’orlo del fallimento la Montgomery City Lines.
Martin Luter King, pastore di chiesa Battista, incitò il popolo nero ad usare i metodi di resistenza non violenta ispirati agli insegnamenti di Ghandi, ma ormai la valanga era in movimento e quasi tutti sentirono che era giunto il momento di dire basta all’oppressione con la stessa determinazione che aveva avuto Rosa Park.
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Ad essere insofferente per i pesanti condizionamenti imposti dall’“American way of life”, per le storture e le contraddizioni di una società in larga scala non era solo la minoranza di colore, fra gli scontenti c’erano anche i bianchi e non necessariamente i più poveri. Decine di giovani intellettuali e artisti si orientarono verso i canoni del non conformismo occidentale come rifiuto a un vuoto esistenziale della società americana. Nella maggior parte dei casi i neri si trovarono come i loro colleghi bianchi a dover fuggire dalle classiche situazioni borghesi con cui non si identificavano più, i nuovi neri avevano dato vita a un’arte borghese semi intellettuale e ciò era inevitabile dal momento che si ponevano come obiettivo quello di difendere il loro diritto di neri a essere intellettuali in una società che palesemente negava loro questa capacità.
Si fecero interpreti di questo “male di vivere” alcuni celebri scrittori come Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso ed altri, che assunsero il ruolo di portabandiera della cosiddetta beat generation, una generazione stanca, amareggiata, insicura, dolorosamente consapevole delle ingiustizie del mondo in cui si era costretti a vivere. Beat descriveva uno stato d’animo spoglio di ogni sovrastruttura, sensibile alle vicende del mondo ma insofferente alle banalità. Essere beat significa vedere le cose dal profondo, essere esistenzialisti nel senso di Kierkegaard piuttosto che di Sartre (Holmes, J.C.).
Il beatnik era il fratello minore di dell’hipster degli anni Quaranta che frequentava i bopper e si iniettava nelle vene l’eroina sul modello di Charlie Parker. Ma mentre l’hipster era freddo, cinico e aggressivo, il beatnik era gentile, pacifista, il suo atto di maggiore violenza poteva essere il suicidio. Alla droga pesante preferiva la marijuana a cui seguirono i micidiali LSD e le altre cose.
Meno pericolosa fu un altro tipo di evasione, non dato dalla chimica ma dall’aura del misticismo orientale: il buddismo Zen, diffuso da Alan Watts, un ex pastore evangelico. Qualche anno più tardi fu l’era del misticismo indù che avrebbe affascinato molti jazzmen.
Quando nel 1955, Ginsberg lesse per la prima volta la sua poesia “Howl” (urlo) nella Six Gallery di San Francisco, diede il via a una fervida stagione letteraria e comprese che qualcosa di importante stava per accadere e avrebbe cambiato il sistema capitalistico americano. “Quella poesia” – scrive Fernanda Pivano – “fu il manifesto di una generazione che non credeva più nei miti pseudo scientifici che avevano condotto alla nuova meccanizzazione dell’America e alla sua incondizionata adorazione del denaro come mezzo di potere”.
Parve a Ginsberg che forse gli uomini sarebbero riusciti a guarire dal vizio del denaro se avessero ritrovato una possibilità di comunicazione che consentisse la “liberazione dalle sovrastrutture imposte dai mass media con la loro violenza psicologica esercitata sul libero pensiero della propaganda della stampa, della radio, della televisione e della Chiesa; sovrastrutture disarticolate ormai nella cristallizzazione di preconcetti e pregiudizi sfuggiti del tutto alle coscienze individuali”. Ma reagire al mito del denaro e cambiare l’egemonia dei mercati riuscì, ovviamente, molto difficile.
Allen Ginsberg
I protagonisti della beat generation sentivano una stretta vicinanza al modo di vivere e di essere dei jazzmen, in particolare Kerouak (il cui idolo era Charlie Parker) sentiva di appartenere alla loro “razza” di avere le loro stesse ansie e la loro musica era la sua musica. In On the road, scritto nel 1957, il jazz è dappertutto.
I poeti beat si incontrarono con i musicisti jazz e collaborarono con loro nei localini di San Francisco. Jazz e poesia celebrarono un’unione che sembrava indissolubile. Mentre i poeti recitavano i loro versi sul ritmo incalzante delle musiche, i solisti improvvisavano, sottolineando ed enfatizzando parole e significati.
Non durò molto. L’errore fu di rivolgersi ad una stretta elite di intellettuali, e quei territori che mobilitarono molti artisti, non lasciarono traccia, tranne l’esistenza di una mezza dozzina di dischi.
Verso la fine degli anni Cinquanta sembrava che l’era del jazz avesse raggiunto il suo termine, Harlem era ormai zona morta per il jazz, molti locali avevano chiuso e molti gruppi si erano sciolti.
Ma il bello stava per cominciare. La Rivoluzione Nera, l’affermazione della Nuova Sinistra americana, la crescita del dissenso interno agli Stati Uniti, la fioritura della controcultura undergroung, il dilagare della violenza, la rivolta studentesca, la contestazione del principio di autorità, e il crollo dei valori, miti e tabù fino a quel momento intangibili, condizionarono tutti i movimenti che dilagarono a livello planetario.
Nei tumultuosi anni Sessanta, i neri si accingevano a riprendere la loro musica.
I musicisti cominciarono a percepire l’alienazione come un dato non solo importante ma necessario per difendersi dalla bruttura della cultura ufficiale americana cercando di sovrapporre a un ordine sociale senza senso né spessore, un ordine capace di conferire valore all’esistenza.
La musica rappresentava l’espressione tipica per eccellenza dei gruppi sociali allora in rivolta e il jazz, o ciò che dal jazz derivava, finì per conquistare un’immensa popolarità, soprattutto nell’affollatissimo palcoscenico della città di New York, quella stessa città che vide anni prima l’irruzione dei boppers.
Qualcuno fra i neri non si accontentava di elaborare i materiali offerti dalla tradizione e cominciò a mettere in discussione le vecchie regole. Ognuno secondo un modo proprio si incamminò su una strada nella quale si sarebbero riversati, qualche anno dopo, gli esponenti della cosiddetta new thing (la nuova cosa): una musica che stava stretta perfino all’interno della parola jazz, termine troppo semplicistico e poco adatto ad esprimere la rivoluzione degli anni Sessanta che esplodeva nelle sonorità free di cui l’improvvisazione era protagonista assoluta. Una musica non più fondata su temi e sequenze di accordi o sulle concezioni estetiche e le regole armoniche delle precedenti generazioni. Il jazz era ora uno strumento di ribellione che offriva un reale contributo alla lotta di liberazione del popolo afro-americano, si faceva veicolo di una veemente protesta e una necessità impellente di giustizia. Cambiava la concezione stessa del jazz di cui si andava accentuando la fondamentale africanità e il significato della rabbia nera.
“Io vi do una parte della mia vita ogni volta che mi ascoltate” scrisse Archie Sheep in un articolo pubblicato su “Down Beat” nel 1965, “non vi permetto di fabbricarmi a vostro piacimento: quell’era è finita… la nostra vendetta è nera come è nero il colore della sofferenza, com’è nero Fidel, com’è nero Ho Chi-minh.”
Si avvertiva uno spirito nuovo: il dolore si confondeva alla rabbia e la protesta era vibrata e diretta, non si riferiva solo alla condizione degli afro-americani ma anche a quella dei neri del Sudafrica. L’Africa perdeva i vaghi contorni del mito e non sembrava più tanto lontana, anzi al cuore dei neri americani non era mai stata così vicina. A commuovere gli afro-americani non era solo un sentimento di solidarietà verso le vittime dell’apartheid sudafricana ma anche un’esaltazione verso i successi che stavano coronando le lotte combattute dai loro fratelli per liberarsi dal gioco coloniale. I nuovi stati africani che stavano nascendo dimostravano che il bianco dopotutto non era invincibile. Le vittorie dei fratelli africani erano vissute come proprie e fu quello un periodo in cui le speranze lasciavano intravedere davvero un possibile cambiamento per il mondo, da troppo tempo diviso tra sfruttati e sfruttatori. La giustizia avrebbe trionfato in America come stava trionfando in tante terre del Continente Nero.
Tra i brani musicali incisi fra il 1957 e il 1962 molti fanno riferimento all’Africa e i suoi nuovi stati indipendenti.
Nel 1960, le manifestazioni di protesta degli studenti neri che avevano adottato la tecnica del sit-in, si moltiplicarono a dismisura.
Qualche mese dopo attirarono l’attenzione pubblica i Freedom Riders, i viaggiatori della libertà costituiti da gruppi di bianchi e neri che percorrevano in autobus gli stati del Sud per protestare contro la discriminazione razziale
Tre anni dopo la lotta si fece più aspra. Il Birmingham, in Alabama fu teatro di gravissimi episodi di violenza in cui i razzisti del sud mostrarono tutta la loro ferocia, scoppiò una bomba in una chiesa che fece moltissime vittime.
Si mobilitarono molte forze istituzionali e personaggi autorevoli per cercare di affrontare il grave problema che affliggeva la società. Il presidente Kennedy cercò di prendere in mano la situazione sensibilizzando l’opinione pubblica sul problema razziale. Anche Martin Luther King, il coraggioso apostolo della non violenza, iniziò un trionfale discorso con “ho un sogno”, che commosse milioni di americani. Così anche Malcolm X, il brillante leader dei Black Muslim, da mesi infiammava i cuori dei suoi fratelli con lucidi discorsi che cercavano di inculcare in loro la coscienza del proprio valore e l’orgoglio per la propria storia e il proprio colore.
Due mesi dopo la bomba e le rivolte nel Birmingham ci fu l’assassinio di Kennedy. Scoppiarono altri tumulti a Filadelphia e Martin Luther King aveva perduto il controllo del movimento che assumeva le sembianze di una vera e propria rivoluzione.
Malcolm X espatriò in Africa e in Medio Oriente perché voleva internazionalizzare il problema dei neri collocando la rivolta nel quadro della lotta di liberazione dei popoli colonizzati, ma durante un comizio ad Harlem nel 1965, fu assassinato.
Archie Sheep rivolgendosi a LeRoy Jones spiegò le ragioni per cui per un bianco era inaccettabile che nel jazz i neri fossero i veri innovatori: “da un punto di vista culturale l’America è un paese retrogrado, gli americani sono retrogradi, ma il jazz è una realtà americana. Alcuni bianchi pensano di avere diritto al jazz ma essi dovrebbero essere riconoscenti che il jazz è un regalo che il nero ha fatto loro. Ma loro non possono accettare questo fatto perché ci sono coinvolti troppi problemi connessi con le relazioni sociali, storiche fra i due popoli.”. La musica è un’entità troppo invischiata con il contesto sociale, non può assumere un valore che prescinde da esso, non può essere ascoltata o prodotta in maniera disinteressata. La musica implica una dimensione importante che è quella relazionale, che sta alla base dei processi socio-culturali delle comunità.
La parola jazz aveva il sapore della discriminazione e ricordava i tempi dello “zio Tommismo” in cui i neri erano disposti a suonare per divertire i bianchi recitando la parte di “negro”. I musicisti dell’ultima leva decisero di cambiare radicalmente tutto. Bisognava scrollarsi di dosso quel vecchiume e suonare una musica libera, nera, la free music, che si affermava con orgoglio nella consapevolezza dei jazzmen di aver creato l’unica forma d’arte autentica americana.
Coloro che ruppero decisamente col passato e le tradizioni, e cioè Cecil Taylor, John Coltrane e Ornette Coleman (Mingus fu un precursore ma non fece scuola all’interno del free jazz), erano partiti da diverse premesse e si mossero indipendentemente l’uno dall’altro, a differenza dei bopper non collaborarono nella definizione di un linguaggio comune. E tuttavia le diverse influenze, sommandosi, finirono per convergere determinando interessanti sviluppi del jazz d’avanguardia degli anni Sessanta.
Tutti i musicisti del free jazz, nelle loro più radicali innovazioni creative, non si limitarono a voltare le spalle al sistema tonale e ignorare le regole grammaticali dei loro fratelli maggiori, si opposero semplicemente alle concezioni estetiche che per secoli avevano presieduto l’arte del mondo occidentale e della cultura europea, per affermare, con provocatoria perentorietà la propria visione del mondo e il proprio modo di essere. Alla ricerca del “bello”, all’armonia delle forme avevano sostituito la ricerca dell’immediata espressività individuale, manifestata collettivamente in una sorta di rito panico. Un’espressività viscerale, senza remore né censure, un’esplosione di incoercibile vitalità.
Il polimorfismo del free jazz non può essere definito mediante un’elencazione di stilemi o di forme ricorrenti di codici, fonti e modi. L’eclettismo dei musicisti avvicinò il jazz alle musiche pop e folkloristiche di mezzo mondo (Africa, India, Medio Oriente, Sudamerica…) nella propensione alla dissacrazione e alla deformazione e nella disponibilità a incorporare ogni sorta di sonorità e rumori ottenuti coi mezzi più disparati. Alla base vi era la ricerca intima e rigorosa fra il compositore e il materiale sonoro, tanto che ad alcuni non preoccupava minimamente la destinazione dell'opera e il pubblico si rivelava un inutile orpello. In un'intervista del 1971 Franco Donatoni giunse a dire con grande cinismo: “Certo del pubblico ne ho bisogno, altrimenti l'acustica della sala sarebbe cattiva”. Ma in realtà la questione non era proprio in questi termini, in quanto il free jazz sottintendeva un preciso coinvolgimento del fruitore e un esplicito impegno socio-politico, anzi, l'implicazione della sfera sociale fu uno dei presupposti dell'apparizione del free.
Il free è stato indubbiamente un movimento d'avanguardia, come precedentemente lo erano state le innovazioni del bop e del cool e non fu il portato di scelte meditate e concordate allo scopo di ottenere determinati esiti formali, ma quanto avvenne nel bebop o nel cool jazz, fu invece la conseguenza dell’approccio espressivo - panico al mondo dei suoni oltre che dell’atteggiamento di contestazione sociale di cui si è parlato.
Venne l’epoca esplosiva del rock’n’ roll, del twist, del risveglio dei cori gospel, si affacciarono alla ribalta cantanti folkloristici come Bob Dylan e Joan Baez che divennero presto gli idoli dei giovani, c’era il jazz-samba, ovvero la contaminazione tra il jazz e la bossanova brasiliana che produsse in quegli anni una musica di una bellezza straordinaria.
I locali del Greenwinch Village (nella parte meridionale di Manhattan) erano troppo pochi per dare lavoro a centinaia di musicisti e scritturavano esclusivamente complessi che garantivano un pubblico numeroso. Agli uomini del free jazz restavano le briciole. Inoltre per molti la reazione alla new thing fu di rifiuto nell’impossibilità di trovare un continuum sonoro e un codice sintattico noto non solo al musicista ma anche all’ascoltatore, senza il quale risultava difficile ogni forma comunicativa e ogni incontro con l’altro. La musica di Coleman, negli anni 60, suscitò gli stessi commenti e le stesse ostilità che avevano suscitato la musica di Parker, Gilliespie e Monk negli anni Quaranta, non solo da parte dei critici ma anche degli stessi musicisti che detestavano o fraintendevano quel nuovo linguaggio musicale.
L’atteggiamento di alcuni musicisti neri e l’entusiasmo di alcuni nazionalisti culturali neri come LeRoy Jones, fecero sì che la nuova musica incontrasse un diverso destino in America e in Europa. Ignorata e disprezzata, o comunque emarginata in patria, la new thing trovò un grande numero di ardenti sostenitori e un prospero mercato tra i giovani del vecchio continente, che vedevano in quella musica l’espressione simbolica di una lotta per la quale si approvavano i fini eversivi. Anche per questo dalla seconda metà degli anni Sessanta si intensificò sensibilmente il flusso dei musicisti neri in Europa dove ebbero maggiore fortuna nelle città di Copenaghen, Parigi, e altri paesi del nord. Al di qua dell’Atlantico le possibilità di lavoro erano maggiori mentre in patria si andavano rarefacendo ed il pubblico che in America era ostile e indifferente, qui applaudiva con calore. A questo si aggiungeva il clima di violenza che spingeva quei giovani musicisti a fuggire, una violenza che aveva ormai ampliato il divario e le incomprensioni tra la popolazione bianca e quella nera. “L'America ripudia il jazz come arte mentre l'Europa l'accetta e l’incoraggia”, ha detto l'esule illustre Johnny Griffin: "L'Europa sta salvando il jazz ed ha certamente salvato la mia vita". Questa ed altre dichiarazioni d'amore-odio per l'America e per L'Europa sono contenute nel lavoro di Bill Moody dedicato ai musicisti americani espatriati in Europa. In Europa non c'era discriminazione razziale, i musicisti erano trattati come artisti, vale a dire che veniva loro concessa la dignità ed uno status, mentre nel loro paese vivevano, o sopravvivevano, ai bordi del business, quasi ignorati e semi emarginati per discriminazione o motivi politici o perché schiacciati dalla inesorabile logica del profitto.
Il 1965 e il 1966 furono forse gli anni d’oro per la new thing, non tanto per la sua accettazione nel pubblico, quanto per la creatività dei suoi maggiori esponenti. Molti di loro, come i più stretti collaboratori di Coltrane (McCoy Tyner, Jimmi Garrison, Elvin Jones e altri) si dedicarono intensamente al free jazz per poi passare ad altre esperienze interessanti.
“Il jazz, ..., è un'espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C'è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.”
(John Coltrane)
Il dissenso per la guerra in Vietnam (dal 1964 al 1975), esacerbava ancor più gli animi sia bianchi che neri, i quali vedevano dilapidare in quel conflitto enormi risorse che sarebbero potute essere più utilmente impiegate per migliorare le loro misere condizioni sociali e per risanare i ghetti.
L’assassinio di Martin Luther King nell’aprile del ’68, con i tumulti in oltre settanta città e poi l’uccisione di Robert Kennedy, diedero al mondo la sensazione che l’America fosse a un passo dall’abisso. In quello stesso periodo i drammatici fatti del maggio parigino convinsero che un’era fosse ormai finita e ne stesse cominciando una nuova.
Fra le scritte tracciate sui muri dagli studenti asserragliati nella Sorbona di Parigi ce n’era una che ammoniva: “Vietato vietare”.
Un critico di jazz francese, per singolare coincidenza, scrisse poco prima, che il motto dei musicisti free poteva essere proprio questo.
