

SARA’ SICURO VENIRE A SCUOLA DI MUSICA? QUALI SARANNO LE MISURE DI PREVENZIONE ANTI COVID PRESE DA OFFICINE MUSICALI PER FARE LEZIONI DI MUSICA IN SICUREZZA?
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La ragione per cui abbiamo deciso di chiudere la scuola prima del lockdown è proprio perché non abbiamo voluto mettere a rischio i nostri allievi. Anche se in Italia i numeri relativi all’andamento del Covid-19 sollevano una certa preoccupazione, gli esperti sostengono che rispetto alla scorsa primavera, la situazione è ben diversa perchè il paese ha imparato ad affrontare l’emergenza con misure preventive e cautelative. All’interno della scuola delle Officine viene garantita una regolare sanificazione delle aule e degli strumenti, la bonifica degli impianti di areazione e un completo ricambio d’aria all’interno dell’aula. Le regole che siamo tenuti a rispettare sono poche e semplici: disinfettarsi le mani con il gel appena si entra, usare la mascherina negli spazi comuni mantenere la distanza di un metro, viene chiesto un monitoraggio personale della temperatura: chi ha una temperatura superiore a 37 gradi non potrà venire a scuola. Le lezioni verranno recuperate in ogni caso.
L’ampiezza delle aule garantisce una distanza dall’insegnante superiore al metro e mezzo. Per Laboratori e altre attività che prevedono la presenza di più persone vige lo stesso criterio: protezione, distanza e limite massimo di persone consentite nell’aula. Per quanto riguarda le attività corali, vista l’impossibilità di portare la mascherina, abbiamo deciso di garantire una protezione con pannelli di plexiglas.
Speravamo che tutto fosse finito con l’estate, ma evidentemente le discoteche, i locali pieni e le spiagge gremite non hanno permesso la regressione del virus. Noi siamo ancora qui a cercare di fare quello che il comune buonsenso avrebbe dovuto suggerire… e non è poi così duro. Studiare uno strumento non è come andare in discoteca.
Facciamo tutto il possibile per non dover tornare a chiudere le scuole… BASTA SOLO UN POCO DI ATTENZIONE.

salotto culturale del jazz
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Le Americhe
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La cultura afroamericana nasce come vivida esperienza di un popolo la cui storia e retaggio dipendono, come abbiamo ampiamente detto, tanto dall’Africa quanto dall’America e dall’Europa. Le eredità musicali e liriche più antiche sono quelle africane, ma le forme mutevoli più recenti riassumono la vita e la storia dell’occidente, soprattutto dopo la guerra civile, quando la cultura afro-americana si svincola dalle restrizioni schiavistiche e dall’unico ambito in cui era relegata, quello religioso.
La civiltà musicale afro-americana rientra all’interno di un’area vastissima sia in termini temporali (dal Cinquecento in poi) che geospaziali (tra il Golfo di Guinea e il Mediterraneo, l’Europa atlantica e i Caraibi, il Nord e il Sudamerica). Entro questa griglia semimillenaria e semiplanetaria hanno preso forma una varietà di musiche di cui il jazz può vantare, forse accanto al blues e al samba brasiliano, la palma della maggiore notorietà.
La musica nera più espressiva di qualsiasi periodo può ritenersi l’esatto ritratto di ciò che il nero è stato in quel periodo, e la storia sociale, economica e psicologica, potrebbe essere contraddistinta da precisi modelli musicali che si sono avvicendati nel corso del tempo: - dalle litanie dei neoschiavi africani al blues primitivo, al blues classico e ancora ai vari stili del jazz - in tutti troveremmo quelle particolari costanti di riferimento che delineano ogni genere musicale in un preciso contesto storico-sociale. Un’analisi approfondita di questi stili permetterebbe di tracciare, quindi, le fasi e i cambiamenti culturali del nero, dal tempo della prima deportazione ad oggi, dalla condizione di schiavo a quella di cittadino americano.
Per comprendere la portata di questa metamorfosi è opportuno ripercorrere un viaggio senza ritorno, dal continente nero alle Americhe.
Un viaggio solo andata
La tratta degli schiavi verso il Nuovo Continente fu ad opera di portoghesi, spagnoli, francesi, inglesi e in minor misura olandesi e danesi che, coinvolgendo in quattro secoli una cifra stimata come oltre i dieci milioni di uomini, rappresenta un caso senza precedenti di efferato e programmato sfruttamento etnico, il più ampio di tutta la storia.
I primi "negroes" provenivano da una zona compresa tra Senegal, Gambia, Camerun, Angola e Nuova Guinea, ed erano trasportati in navi olandesi, spagnole e portoghesi. Ufficialmente, è nel 1619 a Jamestown (capitale dell’isola di S.Elena), che si assiste alla formazione del primo nucleo di africani deportati (una ventina circa). Prima di questa data i neri erano sfruttati per piccoli lavori e al termine del proprio dovere, spesso venivano “eliminati”. Questi primi deportati vivevano in condizioni di semischiavitù, erano considerati africani ispanicizzati (i cosiddetti criollos o ladinos) che gli spagnoli portavano con sé come servitori in stile europeo ma, con il repentino sviluppo dell’economia coloniale e la crescente domanda di manodopera, si alimentò il florido mercato degli schiavi basato su un comodo sistema di interscambio fra oggetti e uomini.
Nessuna bolla di donazione papale mise i re castigliani in condizione di proteggere gli africani, e la cattura dei neri in Africa non sollevò alcun problema di giustizia, anzi, Carlo V, impose speciali licenze che autorizzavano il commercio degli schiavi direttamente dall’Africa senza passare per i Portoghesi, che fino ad allora avevano avuto il monopolio del traffico, evadendo così da ogni forma di controllo. Dopo la seconda metà del XVI secolo, i neri selvaggi, (boxales), importati direttamente dalle stazioni commerciali dell’Africa, aumentarono notevolmente divenendo la maggioranza rappresentativa all’interno della popolazione di colore, soprattutto in quei territori in cui scarseggiava la manodopera indigena.
Roger Bastide, sociologo francese, afferma che nelle zone di approdo del Nuovo Mondo, si sarebbe attuata una prima forma di sincretismo tra gli africani di diversa provenienza etnica. Questo avrebbe segnato una rottura degli equilibri originari con una fusione tra culture nei sistemi religiosi, filosofici, nelle ideologie, nel linguaggio, nei riti e le pratiche quotidiane, anticipando il complesso fenomeno culturale afro-americano da cui risulterà il dominio di una sola cultura: quella del nero americano.
Durante le prime spedizioni, molti neri non riuscivano a raggiungere le coste del Nuovo Mondo per le pessime condizioni di trattamento nella traversata. Da una ricerca condotta sulle relazioni di viaggio inglesi, francesi e olandesi, Dena Epstein (1977) ci racconta che gli europei iniziarono, già nel 1693, ad incitare i neri a danzare sulle navi per distrarsi con la musica nei momenti di pausa. Questo non certo per ragioni estetiche, ma per tentare una gratuita soluzione al problema della salute fisica e la frequente morte dei deportati, che andava contro ogni interesse dei trafficanti. Le fonti raccolte dimostrano la circolazione e l’uso di strumenti musicali di origine sia europea che africana: zampogne, arpe, violini si affiancavano ai “rozzi e incolti” strumenti africani: tamburi, liuti e fiati, sviluppando un’interazione di codici linguistici e segnici di due mondi che si andavano incontrandosi, scontrandosi, sovrapponendosi.
I primi schiavi si considerarono prigionieri di passaggio in terra straniera. Bene lo illustrano le emblematiche scene del romanzo “Radici”, con i reiterati tentativi di evasione dei personaggi come Kuntakinte. L’idea di appartenenza radicò quando si cominciò a raccontare la propria esperienza nella lingua di quel paese e quando i figli cominciarono a sognare in quella lingua.
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Tra il 1700 ed il 1800, secondo stime ufficiali, il numero degli schiavi aumentò da meno di un milione ad oltre tre milioni. All’inizio del XIX secolo, nel Piedmont, la popolazione nera aveva già superato in quantità quella bianca. Così numeroso, il popolo dei neri poteva costituire un rischio di ribellione verso gli spagnoli, oltre che una sommessa minaccia di contaminazione islamica verso gli indio che si andavano convertendo al cristianesimo (Lyle N. McAlister, 1985).
La schiavitù era già una pratica assai diffusa fra le tribù dell’Africa occidentale. Come se non bastasse, agli africani era toccata la sorte di un uguale trattamento ad opera dei musulmani, quasi che Cristianesimo ed Islamismo avessero concordato una punizione univoca contro queste “anime” pagane e ree di possedere un diverso colore di pelle. Gli schiavi americani erano già schiavi in Africa, essendo stati servitori di re e dei potenti che catturavano i nemici nelle guerre fra popolazioni vicine.
Possiamo quindi dedurre che le condizioni di lavoro nelle piantagioni africane erano molto simili a quelle che i neri trovarono nel Nuovo Mondo. Ma una differenza sostanziale era insita, in termini strettamente umani, nella deportazione stessa in un paese che si rivelava culturalmente e socialmente in antitesi con la propria concezione di vita. La realtà che terrorizzava queste persone era l’esilio in un luogo totalmente ignoto, in cui le regole della società, così come erano conosciute in Africa, non avevano alcun valore. Molti schiavi erano spaventati dalla semplice vista dell'Oceano, una realtà assolutamente sconosciuta ad alcune tribù dell'entroterra, tanto da indurre molti neri al suicidio durante il tragitto in nave.
A differenza di altre forme di schiavitù, di popoli ed epoche diverse, questa vide lo schiavo come un oggetto a cui non era concessa nemmeno l’appartenenza al genere umano. Giunti in America, agli schiavi sopravvissuti non restava che adattarsi ad un mondo nuovo regolato da codici spietati quanto incomprensibili. Fin dai primi decenni i neri deportati dovettero sviluppare una interiore forma di resistenza facendo appello alle risorse culturali che avevano potuto portare con sé. Tra queste, quella che più si dimostrò capace di accompagnare lo schiavo nel suo doloroso cammino fu proprio la musica.
Gli schiavi africani erano radicalmente diversi dagli indio e dagli europei e dal peso di questa diversa cultura dovette necessariamente nascere qualcosa che assumesse una forma di mediazione tra modi di essere, di credere in dio, di ascoltare o fare musica.
Rispetto alle aree geografiche del Nord, Centro e Sud America, si verificarono fenomeni completamente dissimili nei processi di integrazione sociale e di sincretismo culturale.
Dopo ben trecento anni di schiavitù e quattrocento anni di separazione dalle origini africane, possiamo notare che in alcune zone come Haiti, Cuba, Guiana, Brasile, sopravvivono ancora oggi esempi di “africanismi” (riti voodoo, shango, il candomblè, divinazioni antiche, etc.), mentre negli stati del Nord, le tradizioni africane non attecchirono e solo dopo poche generazioni dalle prime deportazioni, caddero nell’oblio come per una incapacità degli schiavi di trattenere costumi ed usanze tradizionali.
Fino al XIX secolo, nella parte meridionale degli Stati Uniti, ancora si potevano udire autentici canti e danze africani, si ballava tutta la notte al ritmo dei masterdrum in occasione dei nuovi arrivi africani. Negli Stati Uniti del Nord, già poco dopo la fine delle grandi importazioni di schiavi del XVIII secolo, questa musica, come la danza, si estinsero soprattutto perché la cultura africana era considerata, dai bianchi, impura e corrotta dal demonio. Gli artefatti e tutto ciò che era meglio visibile e tangibile, come le sculture lignee degli Yoruba o altri prodotti artigianali, assunsero forme marginali e occultate, mentre la religione, la magia, le arti della musica e della danza, essendo parte di una cultura immateriale, sopravvissero nei riti e in tutte quelle espressioni più nascoste.
Melville Jean Herskovits attribuisce la causa di questo fenomeno ad un diverso percorso intrapreso dagli schiavi nelle opportunità della socializzazione. Mentre nel Sudamerica e nelle isole (Georgia, Carolina e Caraibi) gli schiavi vissero in un relativo isolamento, nelle regioni del Nord si verificò un maggiore livello di integrazione tra neri e bianchi.
Nelle grandi tenute agricole del Sud, lavoravano decine, a volte centinaia di schiavi che interagivano quasi esclusivamente tra loro senza che vi fossero ulteriori contatti con altri, mentre nelle piccole fattorie del Nord lo schiavo, cosiddetto schiavo da cortile, era pressoché un membro della famiglia che viveva in stretta vicinanza con i padroni, le loro usanze e i loro costumi.
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